Inversione di rotta. «Housekeeping» («Le cure domestiche») di Marilynne Robinson compie quarant’anni

Ryan McAmis, «Marilynne Robinson» (2018)

Osservatore

’attualità delle piccole Ruth e Lucille davanti alla porta dell’antica casa materna

Nel 2015 l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, fece una cosa inusuale, mai accaduta nella storia degli Stati Uniti d’America e probabilmente del pianeta. Chiese un incontro — per un’intervista, non a lui, ma condotta da lui — ad una scrittrice. Il leader della prima potenza mondiale se ne andò nell’Iowa a fare qualche domanda a Marilynne Robinson, autrice di una trilogia, Gilead , uscita a cavallo tra il 2004 e il 2014 e soprattutto di un singolare novel , Housekeeping , edito esattamente quarant’anni fa.

Perché mai un leader internazionale, che in quegli anni aveva rilevanti gatte — dentro e fuori casa — da pelare evidenziava un così urgente desiderio di parlare con una rappresentante del mondo della letteratura, certamente di primo piano — Housekeeping era stato premiato con il Pen/Hemingway e Gilead aveva avuto l’illustre riconoscimento del Pulitzer — ma che rappresenta agli occhi della pragmatica opinione pubblica statunitense una dimensione lontanissima dagli affari mondiali?

Obama era stato attratto dal messaggio di Gilead , ma basterebbe leggere la sua opera prima, edita da noi prima come Padrona di casa da Serra e Riva (Milano, 1988) e poi come Le cure domestiche da Einaudi (nel 2016, con la suggestiva traduzione di Delfina Vezzoli) per capire.

Perché quarant’anni fa riemergeva dal sottosuolo una sorgente che aveva profondità abissali e che era già riaffiorata in passato nella narrazione della violenza come paradossale redenzione in Flannery O’Connor e prima ancora nel messaggio di immersione nel creato di Thoreau, nell’incanto davanti al microcosmo di Emily Dickinson. E nella lotta apparentemente senza senso di Meliville. Senza dimenticare la fascinazione-repulsione per il cosmo del sud, patria e nel contempo esilio, di Faulkner e il tentativo di raccontare il sottosuolo umano in Dostoevskij.

In Le cure domestiche , come in ogni libro geniale, c’è qualcosa del passato — il che non vuol dire influenza diretta — ma c’è anche la presenza del nuovo, in questo caso una visionarietà che scaturisce dalle cose quotidiane.

C’è la capacità di leggere attraverso il caos e il nonsenso e di affermare, come l’Eliot del Canto d’amore di J. Alfred Pufrock , «torno per dirvi tutto, vi dirò tutto». Con la contraddizione di una lingua umana incapace di dirlo, quel tutto, se non attraverso improvvise illuminazioni che si impadroniscono di gente semplice e non di augusti intellettuali, come nel caso della signora — nonna delle due piccole protagoniste — che in una sera d’estate nel suo giardino, accarezzata dal vento, improvvisamente esclama dentro di sé «cosa ho visto, cosa ho visto», senza alcuna spiegazione autoriale.

Le cose accadono, in Le cure domestiche , e il miracolo sta nella capacità di tornare al senso profondo di quell’accadere. Il che vuol dire uscire dalla concezione iper-razionale, dall’abitudine stanca e demotivata, per rivedere il creato con occhi vergini.

Qui sta la vera religiosità della Robinson, nella narrazione di una serie di storie apparentemente slegate e senza senso, e che invece mandano inquieti messaggi altri.

Le cure domestiche narra ciò che accade in un paese immaginario, Fingerbone (che richiama la poetica delle ossa, segno di morte e di risveglio nell’attesa, dalla Bibbia a Melville fino ad Eliot): un treno deraglia, seppellendo nelle acque del lago che incombe minaccioso sulla cittadina anche il nonno di due bambine, le protagoniste del romanzo.

Ruth e Lucille si ritrovano davanti alla porta della antica casa materna, in attesa che qualcuno si prenda cura di loro, perché nel frattempo, senza alcuna spiegazione, anche la madre si getta nelle acque del lago. Ma la cura delle ragazzine da parte di nonna e anziane zie non può bastare: non rimane che Sylvie, una sorella della madre, che accetta di tentare la ricostituzione di un nido.

Ben presto però si scopre che Sylvie ha un comportamento inquietante: dorme sulle panchine pubbliche con i giornali sul volto, o, se sul letto di casa, con scarpe e vestito, sempre quello, e raccoglie qualsiasi cosa trova per strada, perché vecchi giornali o vasi di marmellate essere utili per accendere il fuoco o come bicchieri. Sylvie inoltre conosce bene tutti gli orari dei treni e ci sa salire sopra, meglio se treni merci, al volo, con grande abilità. In poche parole, è una vagabonda.

Inutile dire lo scandalo nel benpensante paese e la lenta separazione che incombe sulla nuova famiglia, perché Lucille si vergogna dei vagabondaggi e dell’aspetto dimesso della zia, mentre Ruth è sempre più affascinata da un modo di vivere che — se ne rende pian piano conto — rappresenta la libertà nella natura e nell’accettazione di esserne parte.

Capisce che accumulare è dilazionare i conti con la propria natura, e che accontentarsi di un bicchiere d’acqua o di un hamburger quando hai sete e fame, dormire sulla panchina o sulla nuda terra, significa udire e dare un senso alle voci delle creature della grande madre.

Racconto abissale, che riporta, senza che ce ne rendiamo conto, a storie che ci sembravano edificanti o simboliche, come quella di un giardino perduto, che improvvisamente acquistano il sapore di una comunione perduta attraverso la rimozione nella modernità.

La casa che brucia delle Cure domestiche è l’esemplazione di tutto questo: origine di affetto e comunione, ma anche chiusura ermetica agli altri e difesa senza senso. Perché ci impedisce, se costruita con avidità e sospetto verso gli altri — soprattutto i poveri che ogni tanto bussano alla porta — di vivere la vita per la quale veniamo al mondo, quella “insieme a”, agli alberi, all’acqua, al freddo, al fuoco, al giorno e alla notte.

La vittoria di Nomadland a Venezia, una nuova letteratura di viaggi non in posti esotici ma alla ricerca della semplicità e dell’essenzialità, la — era ora! — riscoperta della abissale importanza del Cantico del Poverello e della sua scelta di vivere con la testa appoggiata ad un sasso e del dono quotidiano di sorella terra, sono segni che la strada indicata dalle Cure domestiche , quella di un’inversione di rotta e del ritorno alla madre, è quella giusta. Anche perché non ci rimangono alternative.

di Marco Testi