«Incontriamoci, cattolici fiduciosi e laici aperti»

«Penso che chi ha fede debba farsi fiducia e resistere alla tenta­zione di dire: ‘Mondo, vade re­tro’. Chi ha il senso del sacro non può sottrarsi al confronto». Nel dirlo Giuliano Amato, oggi presi­dente dell’Istituto dell’Enciclo­pedia Italiana dopo una lunga carriera universitaria e politica (fu più volte primo ministro), mani­festa l’auspicio che il «cortile dei gentili» si materializzi in nuove occasioni di parole e confronti.
 Nei «Dialoghi post-secolari» (Marsilio) con monsignor Paglia lei scriveva: «L’amore cristiano dà una marcia in più». Perché?
 «È un dato di fatto storico che, se perde l’elemento religioso, una società smarrisce inesorabilmen­te l’attenzione all’altro, avvian­dosi ad una chiu­sura del proprio io che diventa una marea inconteni­bile. Oggi però sia­mo di fronte ad u­na forma settaria di ragione illumi­nistica per cui si vuole vedere la re­ligione come una superstizione del pre-moderno».
 Perché torna di moda questa po­sizione anti-reli­giosa?
 «Tale ‘predicazio­ne’, che io chia­mo ‘illuminismo settario’, ricom­pare per ragioni storicamente comprensibili, ov­vero quale frutto di un’insoffe­renza del post-secolarismo. In­fatti, una cosa è accettare che nel­lo spazio pubblico ognuno possa dire la propria, un’altra ammet­tere le conseguenze di ciò. Appu­rato che nella sfera pubblica le re­ligioni abbiano titolo, ecco na­scere l’insofferenza per i temi re­ligiosi stessi. Ma la domanda è se la riduzione dell’eteronomia dal­le gerarchie come emancipazio­ne della libertà, esperienza pro­pria delle istituzioni democrati­co- liberali, costituisce un’aboli­zione dei vincoli ispirati alle ra­gioni di utilità collettiva oppure attribuzione a ciascuno delle re­sponsabilità delle scelte giuste».
 Come se ne esce?
 «Penso a due personaggi: Isaiah Berlin, per il quale l’esercizio del­la libertà è sempre una scelta mo­rale. E Giovanni Paolo II: per ren­derci più liberi, diceva, Dio si fe­ce impotente. Ora ci troviamo di fronte al peccato della tecnica e dell’etica per cui il limite alla mia libertà è di per se stesso abusivo. Ma dobbiamo ricordarci che il li­mite, anche quello che ci viene dalle gerarchie, è anche un ri­chiamo. In realtà molti laici ca­dono nella trappola per cui la li­bertà non tollera limiti. Ma esi­stono colonne d’Ercole da non varcare: e nella storia esse si spo­stano sempre più in là. Oggi lo percepiamo nelle nostre poten­zialità di distruzione nei confronti degli altri».
 Ad esempio?
 «Le tematiche ‘verdi’, la messa in guardia di quanto l’uomo fa sulla natura come portatore di conseguenze ignote. Gli ogm o i farmaci di cui non conosciamo gli esiti. Oppure: possiamo far ri­cerca sull’essere umano anche nel suo stato em­brionale?
  ».
 Non le pare che il dialogo laici-cat­tolici sia ‘bipar­tizzato’: ognuno si sceglie gli in­terlocutori?
  «Vedo tale peri­colo. È facile tro­vare interlocuto­ri laici attenti su solidarietà, im­migrazione, po­vertà, Darfur o Haiti. E invece, sulla bioetica, è mancata la fidu­cia reciproca e non ci si è più parlati: all’epoca della legge 40 percepii diffidenza da entrambe le parti. Ho vissuto quel periodo come un momento di rottura. Av­vertii, nello specifico, da parte dei laici l’insofferenza verso il punto di partenza del discorso, ovvero assumere che l’embrione è un es­sere umano allo stato nascente. Avevamo tanto parlato di dialo­go fino ad allora ma non erava­mo arrivati a fidarci a sufficien­za ».
 Come rinverdire il confronto?
 «Ho sollecitato interlocutori di si­cura fede a tenere incontri confi­denziali per affrontare le questio­ni ‘calde’ senza strepito, per cer­care di capirci. Purtroppo i laici fanno ancora spesso l’equazione ‘religione = società arretrata’. Co­sì succede che i credenti si vedo­no in una società che non rispet­ta la religione e si chiudono in u­na minoranza condannata alla minorità».
 Lorenzo Fazzini – avvenire 25/2/2010