In Terra Santa la pandemia ha trasformato i luoghi di culto in spazi deserti

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Osservatore Romano

«La pandemia di coronavirus che continua a minacciare il mondo intero si è già trasformata da semplice crisi sanitaria in una crisi economica, sociale e umana su scala mondiale. Sento il grido di uomini e donne di Israele mentre il loro mondo crolla…». Ad esprimersi così non è un semplice opinion maker, ma Reuven Rivlin, il presidente israeliano in persona, sulle pagine di un sito web di notizie locali. E continua:  «In Israele non abbiamo mai dovuto affrontare una pandemia di queste proporzioni, ma abbiamo dovuto affrontare altre sfide decisive, e ne siamo usciti forti e vincitori… In quest’ora difficile, noi tutti — guide politiche e membri della società — dobbiamo tornare ai nostri valori essenziali, alla solidarietà sociale e all’unanimità. Dobbiamo uscire insieme dalla crisi».

Di certo, la situazione non è facile. Se a marzo scorso le misure draconiane assunte dal governo israeliano erano parse a molti eccessive, di fatto avevano consentito di contenere in maniera efficace il numero dei contagi in Israele. Da maggio in poi però la situazione è cambiata drasticamente. La riapertura delle scuole per le celebrazioni conclusive dell’anno scolastico ha scatenato una nuova ondata di contagi, molto più massiccia che nei mesi precedenti. Nei giorni scorsi, nel territorio israeliano sono stati registrati oltre 1.700 casi al giorno. L’eventuale superamento della soglia dei 2.000 avrebbe comportato — così annunciavano le autorità sanitarie — un nuovo lockdown totale. Solo il 19 luglio si è scesi di nuovo sotto le mille unità; ma già il giorno seguente i nuovi casi erano 1.183. I pazienti in terapia intensiva sono più di 200, contro i 42 di due settimane fa. La situazione, del resto, non è meno preoccupante nei territori della West Bank. L’Autorità Palestinese ha recentemente dichiarato 6.566 casi: pochi, se confrontati con altri Paesi del mondo; ma sono triplicati rispetto ai primi di giugno, mentre i decessi sono passati da 7 a 58. Il maggior centro di diffusione del virus al momento è il distretto di Hebron, dove si contano il 60 per cento dei casi. Il sistema sanitario palestinese non è certo attrezzato per affrontare un’epidemia su larga scala.

Le strategie di controllo da parte del governo israeliano sono pervasive. Nelle scorse settimane in molti hanno protestato contro il tracciamento dei cellulari. Basandosi sull’analisi dei tracciati, le autorità israeliane hanno obbligato alla quarantena migliaia di persone, che si presumeva fossero entrate in contatto con persone contagiate. Le multe per chi non indossa la mascherina sono salate, e i controlli frequenti e rigorosi. Per evitare assembramenti, in molti luoghi gli accessi sono limitati. Il problema maggiore, a Gerusalemme, riguarda ovviamente i luoghi di culto. La spianata delle moschee, dopo la chiusura totale di alcuni mesi fa (peraltro in concomitanza con il ramadan) ha riaperto i battenti, con l’impegno di garantire il rispetto delle misure di sicurezza. Il Muro Occidentale rimane abbastanza frequentato, benché il piazzale sia suddiviso in settori transennati, per consentire un facile conteggio delle presenze e il relativo distanziamento.

Il Santo Sepolcro invece è formalmente aperto, ma rimane vuoto perché non ci sono pellegrini cristiani che vengono a visitarlo. Durante gli ultimi week-end si era registrato un certo incremento di turisti, quasi esclusivamente musulmani ed ebrei, che volevano approfittare della mancanza di pellegrini per visitare il sito con più libertà. Per evitare il rischio di contagi, le comunità cristiane che custodiscono il Santo Sepolcro hanno deciso di comune accordo di chiudere le porte della basilica il venerdì e il sabato (la domenica è giorno lavorativo e turisti non ne vengono), consentendo soltanto ai fedeli abituali, che conoscono gli orari delle liturgie, di parteciparvi. Nella basilica della Natività di Betlemme la situazione è ancora più triste: nonostante la riapertura ufficiale a metà maggio, per motivi di sicurezza l’accesso è ora limitato ai fedeli locali non solo nel week-end, ma ogni giorno.

La sospensione dei pellegrinaggi cristiani balza particolarmente all’occhio in questo tempo estivo, solitamente di alta stagione, e produce effetti dirompenti. Prima ancora che un problema economico, è una profonda sofferenza spirituale. «Non è la prima volta, già durante le intifade è stato così — dice l’amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, arcivescovo Pierbattista Pizzaballa — ma la novità stavolta è che siamo di fronte ad un periodo molto prolungato di azzeramento dei pellegrinaggi. Come dico sempre, la Chiesa di Terra Santa vive con due polmoni: uno è la Chiesa locale, l’altro è la Chiesa universale rappresentata dai pellegrini. La presenza dei pellegrini è costitutiva dell’identità di questa Chiesa. Il vedere Gerusalemme con le strade vuote, il Santo Sepolcro senza pellegrini, il lago di Galilea senza nessuno che scenda a toccare le acque toccate da Gesù… è come se mancasse qualcosa. Si può vivere con un solo polmone, sì, ma non si vive bene», conclude.

È difficile descrivere la desolazione di questi spazi, un tempo fin troppo affollati e ora praticamente deserti. Santuari nei quali, per trovare posto, occorreva prenotare con largo anticipo la visita o la celebrazione delle sante messe, sono ora vuoti tutto il giorno. Solamente i frati francescani della Custodia di Terra Santa continuano a presidiare i luoghi santi e a celebrarvi fedelmente la liturgia, come se nulla fosse. Con impegno lodevole trasmettono almeno alcune celebrazioni sui social media, affinché si sappia che la preghiera nei luoghi santi non viene meno. «I frati della Custodia provengono da tutto il mondo» riferisce commosso padre Francesco Patton, custode di Terra Santa. «Rimaniamo in questi luoghi come presenza internazionale per far salire a Dio la preghiera di tutta l’umanità. I frati si fanno pellegrini al posto dei pellegrini che ancora non possono arrivare».

Il Santo Sepolcro, cuore della fede cristiana, ha subìto un lockdown totale per due mesi. Racconta uno dei francescani che lo custodisce, il congolese fra Michael: «La basilica è stata chiusa il 25 marzo scorso alle 17.05, appena terminata la processione quotidiana, e riaperta solo il 24 maggio. Il nostro dovere era quello di pregare: lo abbiamo fatto fedelmente, in comunione con il mondo intero, chiedendo anche la fine di questa pandemia. Non abbiamo omesso nessuna delle liturgie previste, nemmeno durante la Settimana santa e il triduo pasquale, anche se a partecipare eravamo in pochissimi. Stiamo bene, nessuno di noi si è ammalato, non ci è mancato nulla: i confratelli del monastero di San Salvatore ci portavano il necessario, e noi lo ricevevamo attraverso la finestrella nel portone d’ingresso. Continuiamo a pregare, e chiediamo a tutti di unirsi spiritualmente alla nostra preghiera».

Ma se la provvidenza non è venuta meno ai frati del Santo Sepolcro, la crisi generale è dolorosamente tangibile. La città vecchia ha davvero un aspetto spettrale e surreale: solo i negozi del mercato locale sono aperti; volti stranieri non se ne vedono: quasi tutti sono residenti, arabi o ebrei. Le botteghe di souvenir e i ristoranti intorno al Santo Sepolcro, un tempo affollati di clienti, sono per lo più chiusi. Le strutture di accoglienza per pellegrini cristiani, nelle quali fino a pochi mesi fa non era facile trovare una camera libera, rimangono disabitate. «Per molto tempo ancora i viaggi e i pellegrinaggi — continua l’arcivescovo Pizzaballa — saranno difficili. Dovremo dunque ripensare noi stessi, in modo da custodire il legame con la Chiesa universale in altri modi, e cercare di trovare forme di supporto e di aiuto alle tante famiglie della comunità cristiana, e non solo, che a causa di questa situazione sono rimaste senza risorse e con prospettive di grande incertezza».

Un altro settore che contribuisce a generare insicurezza è l’educazione. La Chiesa cattolica in Terra Santa si spende generosamente nella formazione delle nuove generazioni, e le numerose scuole cattoliche gestite dal Patriarcato di Gerusalemme dei Latini e dai frati della Custodia di Terra Santa sono molto apprezzate. «Speriamo che le scuole possano riprendere regolarmente il prossimo anno — prosegue padre Patton — ma non ne abbiamo certezza. Per questo ci prepariamo anche alla didattica a distanza, come abbiamo fatto già nei mesi passati: grazie a questo impegno siamo riusciti a far completare l’anno scolastico a tutti, compresi i maturandi». La pandemia però ha colpito in modo assai pesante queste terre, soprattutto la Palestina e la Giordania, dove il possesso degli strumenti digitali per la didattica a distanza non è affatto scontato. E se già prima della crisi tante famiglie non erano in grado di pagare integralmente le rette, adesso il numero degli insolventi è ulteriormente accresciuto, mentre le direzioni scolastiche non possono sospendere il pagamento degli stipendi del personale. A questo si deve aggiungere che la colletta “pro Terra Sancta”, abitualmente effettuata il Venerdì santo, è stata posticipata al 13 settembre prossimo, e quindi i suoi benefici non potranno farsi sentire prima della fine dell’anno. Anche nell’ipotesi (invero alquanto ottimistica) che la raccolta si mantenga ai livelli consueti, rimangono problemi di scoperto finanziario per i mesi di posticipo rispetto agli ordinari flussi di cassa.

«Trasformare le crisi in opportunità»: è un ritornello che abbiamo ascoltato spesso, in questi mesi. Ma non è solo retorica. Così, ad esempio, il monastero Santa Chiara delle clarisse di Gerusalemme, che ha visto azzerati i suoi proventi ordinari, legati quasi esclusivamente all’accoglienza di pellegrini nella foresteria, sta vivendo questo momento difficile come un’occasione per ripensare il proprio stile di vita. «Una caratteristica fondamentale della nostra vita religiosa — dice la superiora suor Maria di Nazareth — è vivere il “privilegio della povertà”, come voleva santa Chiara. Le attuali difficoltà economiche ci invitano a ripensare cosa significa per noi essere povere davvero, e ci spronano a fare scelte di maggiore austerità. Così aumenta la nostra solidarietà con tante persone che la povertà non la scelgono, ma la subiscono».

La crisi economica, infatti, ha pesantemente colpito tutta la popolazione, penalizzando soprattutto le fasce più fragili. Si registrano nel solo Israele almeno 850.000 persone senza lavoro (più di un milione, secondo altre stime), con un tasso di disoccupazione balzato in pochi mesi dal 4 per cento al 21 per cento e oltre. Gravissima la situazione dei lavoratori stranieri, molti dei quali hanno perso l’impiego, pur dovendo affrontare le spese necessarie per vivere in un paese straniero: spesso infatti non hanno nemmeno la possibilità di tornare nella propria terra di origine. Un’emergenza sociale di cui il Patriarcato di Gerusalemme dei Latini si è fatto carico soprattutto attraverso il vicariato ebreofono di San Giacomo (per i cristiani di espressione linguistica ebraica) e il vicariato per i migranti, di recente istituzione. Ancora una volta, volendo guardare al futuro, si può sperare che la situazione di crisi possa spingere le comunità cristiane a stringere nuove reti di solidarietà e superare la logica assistenzialistica che, non di rado, affligge le Chiese più povere. Laddove la difficoltà è generale, a nessuno è consentito attendere la manna dal cielo, e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo per progredire insieme.

«Una situazione particolarmente dolorosa — riferisce con toni accorati padre Francesco Patton — è quella vissuta in questo momento dai nostri frati in Libano e Siria. In Libano, perché gli effetti della pandemia si sommano alla preesistente crisi economica dovuta alla bancarotta statale, con effetti devastanti. In Siria poi, per usare le parole dei nostri parroci, stiamo passando dalla povertà alla miseria. Un anno fa — aggiunge il custode di Terra Santa — speravamo di aver superato la fase di emergenza legata al conflitto tra milizie jihadiste e potere statale, in cui l’impegno pastorale si doveva concentrare sugli aiuti alimentari e progettavamo di poterci occupare anche della ripresa e dello sviluppo… Invece siamo piombati nuovamente in una situazione in cui dobbiamo concentrare ogni sforzo sulle opere di carità relative ai bisogni primari, perché la gente si trova ridotta alla fame».

Ma il malessere sociale è sensibile e crescente anche in Israele. E non solo tra i cristiani: le manifestazioni di insofferenza da parte della popolazione locale, stretta tra i disagi delle misure anti-contagio e l’incalzante crisi economica, si fanno sempre più diffuse.  Nell’ultima settimana quasi ogni sera le strade di Gerusalemme intorno all’abitazione del premier Netanyhau sono state teatro di manifestazioni di protesta, più o meno affollate, e in diverse occasioni disperse dalle forze dell’ordine. Difficile dire se si tratti di contestazioni di politica interna nei confronti del leader, o più semplicemente di esplosioni di malcontento da parte di gente che sta male. Ma certamente il futuro della nazione non si profila sereno. Senza l’apporto del turismo — e i pellegrinaggi cristiani sono certamente una porzione non irrilevante di questo settore — è difficile formulare previsioni ottimistiche. Si può almeno sperare che le pesanti limitazioni, attualmente in vigore per l’ingresso in Israele a chi non è in possesso di passaporto israeliano, siano presto accantonate. Il termine per la riapertura delle frontiere è fissato all’1 di settembre, ma — come già si è verificato più volte — potrebbe essere prorogato.

Nel frattempo, non pochi italiani che vivono in Terra Santa, sia religiosi che laici, registrano difficoltà a rientrare in Israele, dopo un eventuale soggiorno in patria. «Devo tornare in Italia — racconta Barbara, che da diversi anni vive a Gerusalemme e lavora per una ong — perché è da troppo tempo che non vado, ma prima di partire ho raccolto tutte le mie cose in valigie e scatoloni, perché non sono sicura che mi daranno l’autorizzazione a ritornare qui. Ho lasciato le chiavi di casa ad un’amica, così eventualmente potrà spedirmi le mie cose. Speriamo bene…». Non dissimile la situazione di Daniele, un giovane che collabora da più di un anno come volontario al Christian Media Center della Custodia di Terra Santa: «A settembre dovrò rientrare in Italia perché si sposa mio fratello. Ma chissà se riuscirò a rientrare nei tempi previsti…». Più tranquillo è fra Alberto, direttore della scuola francescana di musica Magnificat: «Come mi è stato suggerito, ho scritto una lettera ai servizi consolari dell’ambasciata di Israele in Italia, spiegando che devo recarmi in Italia per un mese e poi rientrare qui in sede. Ho scritto in ebraico — vivo qui da 13 anni — e, forse per questo, mi hanno risposto subito, dicendo che mi avrebbero rilasciato il permesso senza esitazioni». Ma la presenza dei cristiani sembra sempre meno scontata in questa terra. Un motivo in più per non dimenticare questi luoghi, questa Chiesa e questa gente. «Se ti dimentico, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo…» (Salmo 137, 5,6).

di Filippo Morlacchi