Imposte e giustizia sociale

di Giuseppe Savagnone | 14 gennaio 2013  – vinonuovo.it
Perché non può essere una questione puramente tecnica e non avere nulla a che vedere con i princìpi che ispirano la visione cristiana della società

Sta sotto gli occhi di tutti che il punto fondamentale su cui si gioca la campagna elettorale in corso è quello della riduzione delle tasse. Si ha l’impressione che vincerà chi sarà più convincente nel rassicurare gli elettori a questo proposito. Del resto, già in passato lo slogan ricorrente con cui la precedente maggioranza ha ottenuto e mantenuto a lungo il consenso popolare è stato quello del non “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Una linea che ha trovato pratica attuazione nell’abolizione di importanti imposte dirette, come l’Ici, e che viene riproposta oggi con la promessa di abolire l’Imu.

A prima vista tutto ciò sembra ridursi a una questione puramente tecnica e non avere nulla che vedere con i princìpi che ispirano la visione cristiana della società. Se così fosse, il silenzio della Chiesa sul dibattito in corso sarebbe non solo giustificabile, ma doveroso.

Qualche dubbio in proposito può venire, però, da una riflessione più attenta sul significato che hanno le imposte in una comunità politica, significato spesso oscurato dall’insofferenza diffusa nei loro confronti. Alla radice della richiesta fatta ai cittadini di versare una parte dei loro guadagni alle casse dello Stato non c’è, come spesso si crede, una iniqua vessazione, ma la semplice esigenza di finanziare quelle iniziative che vanno al di là degli obiettivi individuali, per cui ognuno provvede già con i propri mezzi, e sono invece finalizzate al perseguimento del bene comune.

Ora, rientra a pieno titolo nel bene comune di una società che tutti i suoi membri – senza eccezioni – possano disporre delle risorse materiali necessarie per sviluppare pienamente la propria umanità. E poiché di fatto queste risorse si trovano distribuite in modo così diseguale da risultare sovrabbondanti per alcuni, inadeguate a una vita dignitosa per altri, lo Stato ha lo stretto dovere di intervenire attraverso un efficiente sistema fiscale, per chiedere ai primi una parte del loro superfluo, utilizzandola per garantire ai secondi il necessario. Ciò avviene attraverso le imposte dirette, che sono quelle volte a colpire i redditi e i patrimoni più consistenti, e che vanno accuratamente distinte da quelle indirette (come l’Iva), che colpiscono tutti indiscriminatamente e che di fatto finiscono per incidere di più sui magri proventi dei meno abbienti.

Le imposte dirette assumono così la funzione di Robin Hood: togliere ai ricchi per dare ai poveri. Se chi governa rifiuta di mettere le mani nelle tasche di chi le ha piene (quelle già in partenza vuote non corrono molti rischi), è costretto a elevare le imposte indirette, costringendo la fascia più debole dei soggetti economici – piccole botteghe, artigiani, etc. – a chiudere e tutti i più poveri a limitare i loro consumi. E se questo non basta, bisogna tagliare tutti quei servizi pubblici (asili nido, assistenza medica, etc.) che erano indispensabili a chi non aveva il denaro per pagarsi quelli privati. Rendendo in questo modo impossibile a queste persone – che sono tante! – di vivere una vita pienamente umana. Si possono e si devono deprecare gli sprechi e le ruberie che, a livello di enti pubblici, spesso vanificano il sacrificio dei contribuenti: ma è nei confronti di questi sprechi e di queste ruberie che bisognerebbe promettere fermezza, alla vigilia delle elezioni, non nei confronti delle tasse come tali.

Ora, su tutto questo la Chiesa non può restare in silenzio. Nella grande tradizione cristiana la giustizia sociale (non solo la carità) è un valore non negoziabile quanto lo sono la vita nascente e la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Lo ricordava Paolo VI nella Populorum Progressio, al n.23: «Si sa con quale fermezza i padri della chiesa hanno precisato quale debba essere l’atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: “Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi” (De Nabuthe, c.12, n.53)». È la stessa dottrina del Concilio: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità» (Gaudium et Spes, n.69).

Non sono i comunisti a insegnare queste cose: è il Vangelo, nella lettura che ne ha dato la tradizione cristiana. In un momento in cui, in Italia, proprio la (ex) sinistra parla molto dei diritti individuali (nozze gay etc.) e pochissimo dei diritti dei poveri, tocca a noi cattolici ricordare ad alta voce che Dio ha dato i beni della terra perché fossero goduti equamente da tutti.