Il Sinodo, i giovani e la terra di mezzo

Se neanche Gesù con il suo ‘venite e vedrete’ svela subito ai suoi futuri discepoli dove si andrà, come già fece Dio con Abramo con il suo ‘paese che ti indicherò’, perché dovrebbe dirlo la Chiesa?

Roberto Totaro, Nirvana2, 2001

 

Nella prospettiva del prossimo sinodo, il punto di partenza di una riflessione sui giovani crediamo debba essere ciò che questi pensano della Chiesa – ancora troppo simile ai loro occhi alle altre istituzioni.

Innanzitutto, alla luce del percorso svolto in questo primo mese, vi è la percezione netta, sia in chi è fuori dalla Chiesa sia per chi si sente dentro, che oggi in essa, come nella società, vi sia poco spazio per i giovani. Per quest’ultimi, la Chiesa (e la politica) sembra avere solo due chiavi attraverso cui rapportarsi con loro.

Da un lato il “giovanilismo”: un atteggiamento che a parole riconosce ai giovani la potenzialità del rinnovamento e il futuro della Chiesa e della società, e nei fatti però li scimmiotta o li seduce pensando così di attirarseli. In realtà tale atteggiamento impedisce ai giovani di avere uno spazio ecclesiale (e politico), perché esso è la conseguenza del fallimento di parte delle vecchie generazioni, che però non ammettono tale fallimento e non vogliono lasciare davvero spazio a chi viene dopo di loro – ormai spesso un ex-giovane seppur non ancora anziano. Il momento dei Millenials cattolici, purtroppo, è ancora da venire, anche e soprattutto perché poco spazio è stato – e viene – dato a quei quarantenni/cinquantenni cresciuti agli albori della società di cui oggi vediamo gli esiti e restati esterni ai movimenti ecclesiali (e politici) allora in voga, ma che sarebbero i mediatori ideali di questa generazione.

Dall’altro lato, il percepito “ultraconservatorismo”, spesso camuffato da novità, attraverso cui molti movimenti ecclesiali offrono la Chiesa come bene rifugio per quei giovani che si sentono sbandati e disorientati, in fuga da un mondo in cui non trovano un loro spazio ed una loro identità. Non molto diversamente dall'”autoritarismo” di alcune figure politiche che riscuotono successo tra i giovani di oggi. Offerta religiosa – e politica – che però va di pari passo con un effetto su cui poco si vigila, ossia l’abolizione del pensiero critico e la rinuncia al valore della coscienza individuale, istanze che sono ben accette da una parte del mondo giovanile che così risolve due problemi in un sol colpo: comprendere ‘chi è’ e discernere ‘cosa è bene e cosa è male’, senza però che la struttura di fondo della persona sia davvero consolidata e la fede – in qualsivoglia ideale – sia davvero digerita.

In entrambi i casi, dunque, non una Chiesa che confessa di non sapere ancora tutto della cosa di Dio – la quale passa anche per il come detto dai giovani, ma una Chiesa che dichiara già di “possedere” il cosa di Dio ed alla quale il giovane serve soltanto a dire un po’ meglio il come. Una Chiesa, dunque, che per i giovani interpellati ha bisogno di mettere radicalmente in questione alcune sue ‘tradizioni’.

A cominciare da quell’esperienza della gratuità che, invece, i giovani stessi indicano ancora come un canale privilegiato per un loro accesso nella Chiesa: “come i primi pagani, i giovani post-cristiani non credono alle belle parole ma ai fatti. L’occasione di fare qualcosa di buono è cercata da più ragazzi di quanto non si creda. Noi giovani siamo pieni di energie da sfogare. Siamo una forza da valorizzare”. Per finire con l’esigenza di una formazione culturale teologica solida, vivace e sapienziale – intesa con un’accezione diversa da quella propria dell’epoca wojtyliana-ratzingeriana, ma non ancora ben formalizzata sotto il pontificato di Francesco – che permetta ai giovani di accedere ad un fede matura e vitale e non più solo sentimentale e moralistica, riconoscendo che “la comprensione di ciò che non capiamo sta proprio nell’accettare che non possiamo capire e controllare tutto nella vita, che le nostre certezze sono solo una minima parte delle verità e della bellezza che esistono”.

Sono gli stessi giovani, d’altra parte, a sostenere che questa è un’operazione a cui possono contribuire più gli anziani cresciuti nel post-concilio che i giovani. Paradosso che appare tale solo se non ci rendiamo conto che non pochi di loro hanno imparato a scavare dentro di sé, forti di una grande volontà di combattere per un ideale ma al contempo ormai consapevoli che si innova solo dentro un albero genealogico, che chi vuole insegnare deve prima apprendere da quella nutrita minoranza ecclesiale che cerca di pensare e vivere al di fuori degli schemi usuali. In fondo, Papa Francesco, il primo Papa che non è stato presente al Concilio e che agli occhi dei ragazzi di oggi (a torto o a ragione) rappresenta una forte ventata di rinnovamento, non dà spesso l’impressione di riprendere parte del programma riformatore (ma interrotto? abbandonato? incompiuto?) di Paolo VI?

Perciò, non si tratta di fare del progressismo per “guadagnarsi dei giovani”, ma di capire quanto radicalmente le generazioni attuali siano diverse da quelle precedenti ed esprimano un modo nuovo di cercare il senso della vita.

Certo, ci si potrebbe domandare – come è stato fatto da alcuni nostri commentatori – come mai questi giovani non si ‘prendano’ lo spazio che rivendicano, come fecero ai loro tempi Agostino, Francesco d’Assisi, Ignazio da Loyola, Teresa d’Avila o la futura Madre Teresa di Calcutta.

Probabilmente, si potrebbe rispondere, proprio perché c’è una differenza che appare evidente dalle parole con cui loro stessi si autodefiniscono in rapporto al primo grande tema con cui spesso la Chiesa approccia i giovani: la (loro) ricerca della felicità e la (nostra) proposta della gioia (cristiana).

In realtà i ragazzi si percepiscono confusi, preoccupati, ‘galleggianti’ – né sommersi, né salvati – apatici, insoddisfatti, spesso in fuga ed alla ricerca di intrattenimento-divertimento indotta da una società tecnologica e consumistica che se ne alimenta in un cerchio infernale difficile da spezzare. Tutto ciò per non sentire l’angoscia che li abita, affannati prima e disillusi poi da proposte di felicità caricaturali (soldi, visibilità sociale, affermazione), armati di un’emotività più sviluppata degli adulti ma non educati a gestirla, e soffocati da un dover essere (erroneamente) ‘felici’ che si trasforma da motivo di stress in ansia da prestazione e paura di fallire, per finire, come conseguenza dell’inevitabile delusione, nella pigrizia, svogliatezza, depressione: “stiamo seduti guardando un po’ di qua – assistendo al tramonto di un vecchio mondo duro a morire che cerca disperatamente di vendere ancora dei prefabbricati di personalità – e un po’ di là – interrogandosi sul domani, così incerto e vago”.

Tra questo Scilla e quel Cariddi, in cui è forte l’imbarazzo di mettersi a nudo, di essere ‘vergognosamente’ onesti con se stessi, si apre quello spazio “di mezzo” che così tanto oggi i giovani dentro e fuori della Chiesa abitano. Un terra di mezzo in cui si oscilla tra una felicità depotenziata a serenità, sperata duratura e permanente ma spesso non in grado di fare i conti con il dolore e la morte, e una gioia derubricata a euforia – o meglio ‘estasi’, invocata solo come momentanea pillola di antidoto quotidiano al non senso di ciò che sentono di essere. Tra routine frenetica del lavoro, non ancora visto come luogo di messa in pratica e scoperta dei propri talenti, e ricerca di emozioni dopate, talvolta tralasciando momenti di scambio e di confronto che alleggerirebbero la prima e donerebbero veri contenuti alla seconda.

La conseguenza è che in questa condizione parole come progetto di vita e vocazione non sono sensatamente percepibili. Sono certo comprensibili, ma restano il più delle volte percepite come utopie irrealizzabili. E di questo dovremmo cominciare a tenerne conto come Chiesa. Altrimenti rischieremmo di cadere in un cortocircuito tra la (loro), presunta, ricerca della felicità e la (nostra), poco calibrata, proposta della gioia cristiana.

Se i giovani non sono alla ricerca della felicità o lo sono ma in un modo che si rivelerà illusorio ed erroneo, che senso ha partire da lì, semplicemente mostrandola al giovane, per poi proporgli un accompagnamento e discernimento su ciò che non vive o che vive male? E che quindi la Chiesa dovrebbe poi criticare, eventualmente con un linguaggio non adeguato a queste forme di “autosabotaggio” e “autocorrosione” tipiche dei giovani d’oggi, ricevendone in cambio una reazione negativa che nulla ha a che fare con lo scandalo evangelico? Ma anche ipotizzando che la gioia dell’adulto cristiano riesca ad intercettare la giovanile ricerca della felicità, la prima non sarà comunque un punto di arrivo estremamente diverso dalla seconda, passato per il crogiuolo della fatica e del dolore e che rischierà di non soddisfare mai, per eccesso o difetto, questa ricerca?

Se neanche Gesù con il suo ‘venite e vedrete’ svela subito ai suoi futuri discepoli dove si andrà, come già fece Dio con Abramo con il suo ‘paese che ti indicherò’, perché dovrebbe dirlo la Chiesa con questaouverture sulla gioia come progetto di Dio? Non sarebbe stato più ‘erotico’ – e dunque adeguato ai giovani – evocare la cosa, la novità appunto, lasciandola sospesa, misteriosa? Non è forse un caso che nelle esperienze di gratuità o di contatto profondo con Dio rivendicate dai nostri giovani la gioia venga solamente sfiorata ed evocata, giammai resa pienamente evidente?

vinonuovo.it