Il segreto di Forrest Gump

Una scena del film «Forrest Gump» (Robert Zemeckis, 1994)

Una riflessione sui meccanismi dell’avidità e della compulsione al consumo

22 luglio 2020

Pubblichiamo uno stralcio da una delle relazioni pronunciate durante la giornata di studio «Più lento, più profondo, pù lieve. Il “buen vivir” secondo Alex Langer» promossa dall’associazione Greenaccord e dalla Regione Toscana, svoltasi il 17 luglio scorso a Firenze.

Accumulare è un comportamento ancestrale legato alla sopravvivenza: si accumulano provviste e riserve da utilizzare nei momenti di carestia e difficoltà a reperire risorse. È stato quindi un comportamento vincente per la specie. Ha quindi a che fare con la sicurezza di base: la sopravvivenza, che si è giocata per la specie come un’onda tra trattenere, creare legami, accogliere, ricordare, lasciare andare, allontanare/allontanarsi, donare, dimenticare. La vera libertà e creatività/generatività dell’uomo sta nella capacità di vivere in equilibrio tra queste polarità.

Il disturbo da accumulo

La prevalenza in modo massiccio dell’una o dell’altra genera squilibrio e patologia. Spesso il mondo della patologia mentale, in cui ci confrontiamo con menti e comportamenti che si caratterizzano per il troppo o il troppo poco, per l’eccesso o il deficit, funziona come da lente d’ingrandimento che ci permette di osservare, in modo esasperato, quei fenomeni che, più moderatamente, caratterizzano il nostro stesso modo “ordinario” di stare al mondo. Riguardo all’accumulo, recentemente è diventato ben noto, grazie ad alcune trasmissioni che ne spettacolarizzano le catastrofiche conseguenze, il fenomeno degli “accumulatori seriali”, ovvero di quelle persone che in conseguenza di un grave disturbo chiamato disposofobia, ammassano nelle proprie abitazioni quantità enormi di cose ed oggetti, che finiscono per soffocarne la vita stessa.

Le persone possono tendere all’accumulo in varie forme, dentro e fuori di sé. Dentro di sé: nella mente, ossessivamente, con fenomeni patologici di ruminazione. All’opposto troviamo la leggerezza patologica delle varie forme di amnesia o del ritardo mentale. Oppure nel corpo, con l’obesità (binge-eating). All’opposto, la leggerezza mortale dell’anoressia. Fuori di sé: l’accumulatore seriale di cose (selettivo, generico, di animali) stabilisce con le cose un rapporto particolare, segnato da alcuni eccessi e deficit. Ha una difficoltà a categorizzare e selezionare i propri beni: non riesce a ordinare con un senso di priorità e scegliere le cose che gli appartengono. La stessa difficoltà non si presenta sulle cose non sue, ad esempio al lavoro. Ha una forma di ragionamento troppo dettagliata ed eccessivamente perfezionista: usa argomenti e contro-argomenti per selezionare e sbarazzarsi delle cose, che poi paralizza la scelta e la rende impossibile. Coglie particolari finissimi delle cose e può avere una straordinaria memoria visiva che gli consente di orientarsi tra ammassi enormi di cose diverse, come, all’opposto ha una difficoltà a ricordare dove sono le cose, cui corrisponde la necessità di tenere tutto in vista e a portata di mano. Vive le cose con un attaccamento affettivo molto particolare: le cose sono pezzi di sé o dei propri cari, della propria storia. Deve mantenere un fortissimo controllo sui propri beni e prova profonda ansia e disagio quando immagina di doversene separare, per cui rimanda ed evita in ogni modo il compito di eliminazione. Può attribuire alle cose una sorta di vitalità, di pensiero ed effetto, e se ne sente responsabile. Può concepirle come se stabilissero connessioni tra di loro e con sé in modo quasi magico.

La tendenza all’accumulo — sostiene Massimo Recalcati — si manifesta anche come «nuova forma di melanconia». Una melanconia che si esprime tanto come ritiro dalla vita che come iperattività, mania e perversione: tutte forme che tendono a idolatrare, nell’attuale sistema economico, l’oggetto da conquistare, da possedere e che funge da copertura, riempimento di un’assenza, un vuoto percepito ormai come insostenibile. «Le nuove melanconie vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio della perdita, sottraendolo all’esperienza dell’assenza. Il loro nucleo è autistico, non nel senso delle psicosi infantili, ma in quello del ritiro regressivo dal mondo: la vita si ritrae dalla vita (…) il soggetto si introverte su se stesso».

Iperattività, perversione, melanconia costituiscono l’esito esiziale del tempo ipermoderno, in cui neoliberismo, globalizzazione e neocapitalismo impongono una frenesia di accumulo e consumo di oggetti, in una situazione di dominio imperante del godimento, come unica via di riparazione all’evaporazione della presenza dell’Altro e all’indebolirsi della funzione simbolica del linguaggio, che rendono impossibile il processo di elaborazione del lutto dell’assenza e la possibilità di slancio del desiderio e di definizione del sé. «Il nostro tempo alimenta la credenza idolatrica verso l’oggetto negando lo sfondo di assenza che accompagna inevitabilmente ogni esperienza umana dell’oggetto».

Dalla cura dei legami: leggerezza e gratitudine

All’opposto degli accumulatori seriali potremmo opporre un personaggio che divenne molto noto nell’immaginario comune negli anni Novanta, grazie ad un film cult di Zemeckis: Forrest Gump (1994). Le stesse due scene che aprono e chiudono il film, che ci mostrano il volteggiare di una piuma, costituiscono la dichiarazione poetica del film: l’elogio della leggerezza.

Forrest vive e narra la sua esistenza, in cui si accumulano esperienze pesanti ed estreme, ogni volta condotte al massimo di possibilità. È un bambino “ritardato” bullizzato, che corre come il vento; diventa eroe sportivo, di guerra, runner instancabile, imprenditore multimilionario. Percorre e ripercorre la vita con la disarmante leggerezza che il suo deficit cognitivo gli comporta. Eppure, in tanta innocente parziale incoscienza, Forrest mostra di cogliere il cuore essenziale della vita: la fedeltà ai legami di amore e di amicizia, che lo accompagnano e lo conducono fino alla possibilità di protendersi con gentilezza verso tutti. Con senso di amorevole e tenera cura verso la vita che muore, e che, in modo improbabile, come tutto nella sua storia, nasce e cresce accanto e da lui, nel piccolo Forrest, suo figlio.

Un percorso analogo sembra delinearsi nel romanzo Le gratitudini di Delphine de Vegan (Torino, Einaudi, 2020, pagine 160, euro 17,50). La narrazione si sviluppa intorno alla progressiva afasia e perdita di autosufficienza che colpisce la protagonista, Michka Sed, un’anziana signora, che di mestiere ha fatto la correttrice di bozze: per tutta la vita si è occupata proprio di quelle parole di cui ora la malattia la priva. La perdita della parola sembra trascinare con sé l’impossibilità di comunicare, di pensare e, con ciò, la sostanza stessa di cui è fatta la vita, riducendo l’esistenza ad un corpo che pare diventare una crisalide del nulla. Eppure, anche in questo percorso forzato di deprivazione, che non alleggerisce, ma incombe pesantemente sulla storia come gli incubi notturni della signora Sed, la leggerezza e la saggezza che l’accompagnano sono conquistate dalla rete dei legami essenziali.

Legami che si prendono cura, sostengono e nutrono la vita; che non ci abbandonano neppure nel momento del suo esaurirsi; che permettono di rinascere, perché anche qui, alla fine, una nuova vita mantiene aperta la prospettiva del tempo. Legami che hanno dato senso e salvezza nell’infanzia, nella vita adulta e adesso negli ultimi mesi della vecchiaia. Legami che, anche in questo caso, consentono di mantenere, anzi di rafforzare il senso più intimo e segreto della vita stessa. E offrono l’opportunità — l’ultima — di riconoscere ed esprimere uno dei sentimenti più profondi che ci uniscono alle persone e ci riconciliano con l’esistenza: la gratitudine.

Al di là delle immagini poetiche di Forrest Gump o di Le gratitudini, ciò che ci sembra di poter intuire, quindi, per la vita dell’uomo è la necessità di una opportuna leggerezza — una leggerezza ancorata, più simile all’aquilone che alla piuma di Zemeckis (o una pesantezza aerea, come quella delle mongolfiere). Ora, se per tutti è vero che le cose si differenziano dagli oggetti — perché gli oggetti rimangono per noi anonimi ed esclusivamente strumentali, mentre le cose sono ciò su cui si ha un investimento affettivo — il rapporto con le cose può diventare uno strumento interessante per imparare qualcosa di noi.

A questo proposito ricordiamo volentieri la riflessione del filosofo Remo Bodei — recentemente scomparso — che a La vita delle cose ha dedicato un libro (Laterza, 2009): «Le cose, riassumendo, vivono a determinate condizioni: se le lasciamo sussistere accanto e assieme a noi, senza volerle assorbire; se congiungono le nostre vite a quelle degli altri; se, per loro tramite, ci apriamo al mondo per farlo confluire in noi e ci riversiamo in esso per renderlo più sensato e conforme — anche grazie alla nostra diakosmesis — a ideali, da discutere insieme, di interesse generale; se coltiviamo un atteggiamento capace di superare la contrapposizione tra una interiorità chiusa e autoreferenziale e una esteriorità inerte e di seconda mano; se — coscienti del fatto che nell’aldilà non potremo portarci dietro niente, perché, come dice un proverbio tedesco, “l’ultimo vestito non ha tasche” — rinunciamo a privilegiare rapporti di esclusivo possesso, accaparramento e dominio sugli oggetti; se, guardando al senso originario di eternità come pienezza di vita, abbandoniamo il vivere semplicemente alla giornata; se passiamo dall’esibizionismo del logo e dalla cultura dello spreco, ad un rapporto sobrio ed essenziale con le cose; se riusciamo a riconoscere in ognuna di esse la natura di res singularis investita in quanto tale di intelligenza, di simboli e di affetto; se allarghiamo continuamente il nostro orizzonte mentale ed emotivo evitando di perdere la consapevolezza dell’insondabile profondità del mondo, degli altri e di noi stessi».

di Maurizio Gronchi / Osservatore Romano