Il presepe dentro di me. Vieni, Signore Gesù. Vieni per tutti noi

di Chiara Bertoglio | in vinonuovo.it


Non posso portare Gesù a queste persone, perché ho bisogno anch’io di trovarlo ed incontrarlo. Ma posso portare loro davanti a Lui, anche se la mia preghiera è povera e affaticata

Chi mi conosce sa quanto ami il Natale. Ne amo gli aspetti sacri, ma anche quelli apparentemente più profani, eppure spesso carichi di poesia, di incanto, di affetto e di ricordi. E amo l’Avvento, sia come tempo liturgico, sia come attesa che pregusta la festa più amata.

Gli anni scorsi, l’attesa del Natale era scandita sul mio blog da un piccolo cammino che condividevo con gli amici. Quest’anno non ce l’ho fatta: da novembre ad ora è stato un susseguirsi ininterrotto di impegni e scadenze, che mi hanno spiaggiata a pochi passi dal Natale senza quasi darmi tempo di accorgermene.
I regali li ho, per la maggior parte – devo solo impacchettarli.
Il menu del pranzo è stabilito, d’accordo con la mia mamma, superchef di famiglia.
Gli addobbi di casa sono illuminati da tempo, perché – sapendo il dicembre che mi attendeva – li ho preparati prima ancora che iniziasse l’Avvento.

Manca qualcosa, però. Manca soprattutto Qualcuno.
Gli altri anni, l’attesa della festa e delle cose trovava un senso ed un bilanciamento dall’attesa spirituale e dal significato profondo del Natale. Quest’anno, annaspando fra gli impegni, ho trascurato Colui che dà senso, origine e bellezza alla festa, e dell’attesa ho mantenuto solo luminarie e pacchetti, che non mi danno gioia senza la Luce vera.

C’è ancora tempo, per fortuna. Devo preparare il presepe in casa mia, ma soprattutto posso ancora preparare il presepe dentro di me.

E voglio riempirlo di persone che desidero siano vicinissime al Bambino. Io non posso portare Gesù a queste persone, perché ho bisogno anch’io di trovarlo ed incontrarlo. Ma posso portare loro davanti a Lui, anche se la mia preghiera è povera e affaticata.

Voglio mettere accanto alla capanna Anna, una signora della parrocchia, che mi conosce da quando ero alta così ed andavo all’asilo in cui lei era economa. È venuta alla Messa feriale tutti i giorni, fino alla vigilia del ricovero all’hospice. Quando ci sentiamo, mi dice: “Sono stata alla cappella dell’ospic [così lo chiama]. E ho scritto su un biglietto: ‘Grazie!’. Perché qui all’ospic ho trovato persone meravigliose e sorridenti”.
Altre volte, mi racconta le sue preoccupazioni, e mi chiede di pregare perché riesca a firmare l’assegno per le sue necessità “perché se mi sbaglio poi si butta un assegno”, oppure perché l’incontro con il notaio vada bene, o perché riesca a recuperare i soldi per il suo funerale. Sentirla parlare così della propria morte da un lato è disturbante, dall’altro è grande. Ti accorgi di come è sbagliato il tuo pensare alla morte quando ti rendi conto che, per qualcuno, può essere veramente solo una tappa della vita, e non l’ultima.

Voglio mettere accanto alla capanna Giusy, una ragazza più giovane di me, che ha avuto un’infanzia, adolescenza e giovinezza difficilissime per una gravissima patologia polmonare, e che, finalmente, l’anno scorso ha ottenuto l’attesissimo trapianto di polmone che l’ha salvata e le ha restituito una vita quasi normale. È stata felice per un anno: oggi, aprendo casualmente il giornale, ho visto che la sua mamma è mancata proprio a pochi giorni dal Natale.

Voglio mettere accanto alla capanna due uomini di cui non so il nome. Uno l’ho incontrato alla stazione qualche giorno fa, quando cercavo di godermi una colazione frettolosa al bar con i miei adorati cappuccino e brioche. Mi sono andati per traverso: lui faceva colazione con sospiri profondi e grandi sorsate di birra tracannata dalla bottiglia.
L’altro l’ho visto al parco vicino a casa, mentre cercava di scaldarsi con un fuoco che sembrava uscito da un libro di fiabe. Mi sono avvicinata, ho provato a raccomandargli di rivolgersi alla parrocchia: mi ha risposto che lui è il “principe della Chiesa e il re di Torino”.

Accanto alla capanna ci saranno anche Luisa ed Irene, due ragazze con l’anoressia che cercano di uscirne ma fanno tanta fatica. Il corpo si consuma, l’anima è lacerata, la mente lucidissima e spietata, e attendono la carezza di compassione e tenerezza di un Bambino. Egli è l’unico che, con la sua innocenza, santità e semplicità, può sfiorare la loro anima ustionata e restituire loro pace e vita.

Ci metterò anche i pazienti ed il personale di un reparto di oncologia dove ho avuto la fortuna di suonare in questi giorni: i medici che trascorreranno la notte di Natale a vegliare quelle persone così gravi da non poter tornare a casa nemmeno per la festa, e gli occhi da bambino di alcuni malati anziani, crocifissi da flebo e cannucce dell’ossigeno, in cui speranza e paura si mescolano in egual misura.

E voglio metterci anche un’altra persona, che sta perdendo la fede perché ha fatto degli sbagli nella vita e teme di sentirsi condannata da Dio. Se solo riuscisse ad incrociare lo sguardo ridente e semplice del Bambino, che
non vuol sapere cos’hai fatto né perché l’hai fatto, ma ti chiede solo, con una fiducia infinita, di prenderlo fra le tue braccia.

Non voglio che il mio presepe sia un catalogo di casi umani. Voglio che sia un cammino di speranza e di vita, perché nella capanna è nato un bambino. Eppure mi rendo conto che nessuno di noi può portare al Bambino dei regali che non siano venati di fatica, e talora non abbiamo veramente nient’altro che la nostra fatica da tenere nelle mani e posare ai suoi piedi.

Vieni, Signore Gesù. Vieni per tutti noi.