Esiste un profondo rapporto tra comunità e perdono. Non si dà comunità senza perdono, ed è il perdono il grande generatore e rigeneratore delle comunità.Cum-munus (dono reciproco) e per-dono. Le relazioni sociali che non hanno bisogno di perdono sono quelle funzionali, burocratiche, anonime, contrattuali, dove non essendoci incontri im-mediati non c’è bisogno del perdono, che diventa solo una parola stonata e straniera.
Qui sono sufficienti la mediazione del superiore gerarchico, le compensazioni monetarie, i ricorsi, le cause in tribunale. Nelle comunità, invece, sono soprattutto i corpi a parlare e a incontrarsi; e quindi ci si ferisce spesso, più o meno intenzionalmente. Solo il perdono può curare veramente le ferite delle relazioni comunitarie (nelle famiglie, ma anche in molte imprese), dove i risarcimenti in moneta, i decreti ingiuntivi e i tribunali non sono di nessun aiuto per ricominciare, e non fanno altro che decretare la morte delle comunità e spesso anche delle anime delle persone.
Nelle comunità dovremmo, semplicemente e dolorosamente, solo perdonarci. È il perdono che trasforma un popolo in una comunità. Siamo riusciti a diventare comunità quando, dopo le pazze guerre fratricide, ci siamo perdonati collettivamente, ci siamo riconciliati piangendo insieme sulle tombe dei morti di tutti, gioendo, cantando e ballando nelle feste di tutti. È così che abbiamo fatto anche i “miracoli” economici. Soltanto i popoli-comunità sanno fare grandi economie; i popoli-e-basta vivono (quando vivono) grazie alle rendite da capitali generati ieri da altri popoli-comunità. Torneremo a vedere nuovi miracoli economici e civili se saremo capaci di tornare a essere comunità, certamente in un modo tutto nuovo e diverso, ma ancora comunità: ancora cum-munus e per-dono.
Troviamo qui la base più profonda del lavoro inteso e vissuto comevocazione: anche per lavorare bene dobbiamo essere “chiamati per nome” come Besalèl, certamente per poter realizzare santuari, cattedrali, la cappella Baglioni e le sinfonie di Mahler; ma anche per costruire tavoli e impianti elettrici, o per pulire bene un bagno. A Besalèl YHWH mette accanto un altro lavoratore: Ooliàb , e benedice anche lui (35,34). Il lavoro è attività del “due o più”. Nessun lavoro è atto esclusivamente individuale, perché c’è sempre qualcun altro accanto, prima, al di là del nostro lavoro. YHWH ha chiamato quei due architetti-artisti-artigiani per nome e «li ha riempiti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso, e di tessitore: capaci di realizzare ogni sorta di lavoro e di ideare progetti» (35,35).
È grande allora il valore di questo capitolo dell’Esodo che pone il lavoro delle mani al centro della nuova alleanza, oggetto di una specifica benedizione di Mosè. Come il tabernacolo, l’arca, il santuario. Mosè dà la sua benedizione a “ogni genere di lavoro”: per “ideare progetti” e per “intagliare, incastonare”. Benedice gli artisti, gli architetti, gli artigiani. La benedizione sul lavoro è una sola. La dignità è la stessa. Il lavoro di chi idea progetti e il lavoro dell’artista e dell’artigiano che danno forma e “carni” a quelle idee, ricevono il medesimo spirito all’interno dell’unica benedizione del lavoro. Uno solo è lo spirito della vita, di tutta la vita. Nell’umanesimo biblico non esiste uno spirito per il lavoro intellettuale (ideare) e uno diverso per quello manuale (intagliare). Ci viene donata una fraternità tra mestieri diversi raggiunti tutti dallo stesso soffio. I mestieri degli uomini e quelli delle donne: «Tutte le donne esperte filarono con le mani e portarono filati di porpora viola e rossa, di scarlatto e di bisso. Tutte le donne che erano di cuore generoso, secondo la loro abilità, filarono il pelo di capra» (35,25-26).
C’è tutta un’arte delle mani alla base della nostra economia vera. È più facile scoprirla nei lavori quotidiani e umili che compongono la grammatica della nostra cooperazione civile. Parliamo, ci stimiamo, ci serviamo, ci incontriamo, prima di tutto lavorando, quindi parlando, stimando, servendo, e incontrandoci soprattutto con le mani. Sono le mani delle infermiere e degli infermieri, dei medici, delle casalinghe, dei baristi e degli architetti, degli elettricisti degli idraulici dei muratori, degli uomini e delle donne che puliscono i nostri uffici e le nostre fabbriche, le mani delle maestre, dei mastri carpentieri, degli scrittori e dei giornalisti (che restano “mani” anche quando pigiano su una tastiera o toccano uno schermo) che ci fanno vivere e fanno rivivere la nostra società. Possiamo prendere lauree, diplomi, frequentare dieci master, ma finché quelle conoscenze astratte non diventano conoscenza delle nostre mani, non abbiamo ancora appreso un mestiere, siamo in attesa nell’anticamera del lavoro.
È qui la vera laicità dell’umanesimo biblico: la prima preghiera dei lavoratori è la costruzione dei “santuari” e la non costruzione degli idoli. La nostra prima preghiera è quella delle mani. Lo spirito riempie il mondo grazie al lavoro umano. Basterebbe solo questa verità per guardare diversamente il lavoro e i lavoratori. La grande legge del settimo giorno ci dice poi che il lavoro è sesto, penultimo giorno, come penultimo è anche il santuario. Ma ci ricorda anche che nei sei giorni della storia la benedizione del lavoro è dentro l’alleanza, è già terra promessa.
Oggi ci sono mani e intelligenze a servizio dei vitelli d’oro e degli idoli, e altre mani e menti che continuano a costruire “cattedrali”. È solo questa la differenza in dignità del lavoro che la Bibbia ci pone davanti, e che la nostra società dei consumi non vede più. La qualità e la dignità morale delle società si dovrebbe misurare – se tornassimo all’Esodo – a partire dalla riduzione dei lavori al servizio degli idoli e dalla creazione, al loro posto, di lavori che edificano il bene – che sono ancora la grande maggioranza.
Il mondo del lavoro ha una grande fame e sete di benedizioni. Benedizione, cioè bene-dicere, dire “buone parole”. Benedire il lavoro è dirci l’un l’altro parole buone sul lavoro e sui lavoratori. Il lavoro è parte della condizione umana, e quindi è sempre al centro delle nostre parole, parole di bene-dizione o di male-dizione (le parole importanti non sono mai neutrali). Il lavoro soffre perché lo abbiamo circondato di parole cattive, di disistima, di disprezzo. Torniamo a benedire il lavoro: è questa la premessa di ogni buona riforma del lavoro e di ogni autentico umanesimo.