Il gol del giocatore defunto «Il mio regalo Mondiale? Poterlo vedere, nonostante Mobutu»

MASSIMILIANO CASTELLANI

 Se la guardi dall’alto della Touble Mountain, così armonica tra il verde delle sue cime e quello scuro del mare, pensi che Cape Town sia davvero l’altra faccia del Sudafrica. Quella pulita, ricca, tecnologica e sicura. Una San Francisco africana, di certo la città più europea del paese. Un porto di mare, da sempre infatti la chiamano Tavern of the Seas. Una metropoli multietnica (meno neri e più coloured, bianchi ed asiatici, rispetto al resto del Paese) che ha la metà degli abitanti di Johannesburg, 4 milioni, e una provincia florida e commerciale che gode del buon governo della signora Hellen Zille: nel 2008 quando era primo cittadino di Cape Town, fu premiata come miglior sindaco del mondo. Ma anche l’altra faccia del Sudafrica conosce la violenza quotidiana, il sopruso e la vita agra delle township. La Langa che da noi rimanda alla poesia di Cesare Pavese e ai vigneti del Piemonte, qui è una bidonville degradata che non ha niente da invidiare, per miseria, ai tuguri lamierati di Soweto. Poco più in là a Philippi nel ’94, l’anno dell’ascesa presidenziale di Mandela, cercò rifugio una vecchia gloria del calcio africano, Ndaye Mulamba. L’antesignano degli Eto’o e i Drogba. Negli anni ’70 Mulamba era il principe dei bomber del continente nero, l’uomo che portò i ‘Leopards’ dello Zaire – oggi Repubblica Democratica del Congo – alla vittoria della Coppa d’Africa, nel ’75, stabilendo il record di gol ancora insuperato della competizione, 9 reti. In patria, dopo aver segnato il gol decisivo nella finale con la Tunisia, c’era tornato accolto da eroe nazionale. Ma ancora vent’anni dopo, per il dittatore Sesé Mobutu, il vecchio leopardo Mulamba era semplicemente un “suddito” che doveva assoggettarsi e consegnare per forza al governo la preziosa medaglia d’oro della Coppa d’Africa. Invidia da popolarità: il regime non accettava altri idoli: «Così di notte sono venuti le guardie di Mubutu, mi hanno puntato un fucile alla tempia e poi mi hanno caricato su una macchina, fino a quando non hanno pensato di gettarmi giù da un ponte per farmi fuori…». Le sue preziose gambe da calciatore nell’impatto fatale erano state ridotte in pezzi. Un intervento chirurgico lo rimise in piedi. Miracolato, ma zoppo, appoggiandosi su una sola gamba, decise di scappare più lontano possibile. Cominciò così la sua trasferta più dura, la fuga fino a Cape Town. Si era lasciato alle spalle una moglie (alla quale venne comunicato che era morto) e un passato che resisteva solo sulle foto in bianco e nero che immortalavano i suoi tanti gol di un’onorata, e presto dimenticata, carriera. L’idolo di Kinshasa, aggregato a un viaggio della speranza fatto con mezzi di fortuna, lo stesso che ogni anno compiono migliaia di clandestini dal Mozambico, Zimbabwe, Sudan, Angola, Ruanda e Malawi, in cerca di un riparo e di un lavoro che quasi mai poi riescono a trovare. I rifugiati in Sudafrica ormai sono quasi 6 milioni. Tanti vanno ad ingrossare il serbatoio dei disperati (un milione di baraccati a Cape Town), vittime sacrificali degli ‘slum lords’, i padroni di interi quartieri simili a dei campi-profughi, in cui per occupare spazi angusti di cinque metri per tre, si deve pagare un pizzo che arriva anche a 100 dollari al mese. Molti non arrivano neppure a possedere un dollaro al giorno e diventano clochard come Mulamba che era ad un passo dal punto di non ritorno, se non fosse intervenuto in suo soccorso l’assist decisivo, quello del suo “angelo” Anne. «Mi ha strappato dalla strada e dall’alcolismo la sua Ong Cwb. Poi con Anne ci siamo sposati e adesso ho ricominciato la mia seconda vita, perché la prima in Zaire l’hanno cancellata per sempre. Per loro sono semplicemente il ‘bomber defunto’». E invece a 61 anni Mulamba, ha ripreso la sua esistenza in mano, ha una nuova famiglia e due figli e per questo Mondiale ha deciso anche di tornare allo stadio. «Mi hanno regalato i biglietti per le partite che si disputeranno qui a Cape Town. Dopo l’Italia, vedrò l’Inghilterra, ma anche l’Algeria e il Camerun. E magari chissà, questa è la volta buona che una nazionale africana possa vincere un Mondiale. Io lo spero…». A un’ora dalla nuova casa di Mulamba c’è il Capo di Buona Speranza, e quella, la speranza, il bomber che visse due volte non l’ha mai smarrita.
(di avvenire)