Il gesuita che convertì Shakespeare

di Enrico Reggiani

La filiale italiana di quella che Gerald Roberts propose di chiamare nel 1987 la Hopkins Industry è un fenomeno culturale di grande tradizione e di ampie proporzioni. Taluni ne vedono le origini – non troppo accuratamente – nel 1937 a opera dell’"antigesuita Croce" (per richiamare una definizione tranchant di Alessandro Martini), trascurando coloro che, in Italia e in quegli stessi anni partecipavano al dibattito su Hopkins e, più in generale, sulla presenza dei cattolici inglesi nell’ambito dello scenario vittoriano. Costoro, con competenza, esprimevano qualche dissonanza rispetto agli assiomi crociani: erano tutti esponenti (Olivero, De Luca, Castelli e Baldi) di una sorta di anglistica altra, assai variegata rispetto a quella più di frequente tramandata dagli annali, ma altrettanto meritevole di attenzione. Quella stessa filiale italiana della Hopkins Industry pare anche avere risolto, in misura sempre più accentuata, la questione del ruolo letterario e culturale di Gerard Manley Hopkins (1844-1889) in senso modernista, cioè esasperandone i tratti potenzialmente riferibili ai successivi sviluppi teorici e creativi del Novecento, a discapito di una loro lettura più legittimamente calata nel coevo contesto vittoriano e altrettanto esaltante. È utile però far emerge alcune dinamiche del pensiero critico del grande "gesuita-poeta" – per tornare alla nota definizione laudatoria di Benedetto Croce rispetto a quella denigratoria di "poeta-gesuita" – su qualche imprescindibile protagonista della cultura letteraria d’Inghilterra, anche perché proprio tale pensiero critico può utilmente lasciar intravedere le sue posizioni nel più ampio quadro cultural-religioso e socio-politico-istituzionale del suo tempo. Sintomatica, in primis, è la sua posizione su Charles Dickens (1812-1870), con il quale Hopkins simpatizzava, prevedendo recensioni ingenerosamente negative di Our Mutual Friend (1864-1865) e confessando che "la literary history (ricezione critica, si direbbe oggi) di Dickens mi suscita malinconia; tuttavia, assumere nei suoi confronti la posizione che è assunta o che sarà assunta da alcuni non è giusto o equilibrato" (lettera a Baillie, 1864). Allo stesso tempo Hopkins riteneva che Dickens "non fosse davvero in grado di controllare il pathos e che le sue opere avessero qualcosa di sdolcinato, ma forse non ne ho letto i passi migliori" (lettera a Dixon, 1881). Hopkins si espresse inoltre in modo assai penetrante su George Eliot (pseudonimo autoriale di Mary Ann Evans, 1819-1880). Ne stava leggendo il romanzo Romola all’inizio del 1865 e commentò questa sua esperienza di lettore in modo significativo: da una parte si dichiarò infelice per la tragica sorte di Savonarola in una lettera del 1865 a Urquhart, dall’altra, scrisse in una missiva del 1865 a Baillie di aver fatto "uno sforzo per non accettarlo all’inizio; ma ora lo considero un grande libro, benché non al livello di Shirley" (di Charlotte Brontë, 1849), soggiungendo un commento assai emblematico, ma tuttora inadeguatamente scandagliato o non di rado ingiustificatamente omesso in sede critica: it is a pagan book. Assai di frequente, inoltre, nella sua breve ma intensa esistenza, Hopkins si ritrovò a percorrere i sentieri di quel grande scenario culturale che Gary Taylor ha definito neologisticamente shakesperotics e che "include tutto ciò che una società fa nel nome – variamente compitato – di Shakespeare". Già in un saggio del 1865, il giovanissimo gesuita-poeta, allora studente presso la fucina shakespeariana del Balliol College di Oxford, aveva elaborato una sua definizione della natura sintetica della cultura del genio di Stratford-upon-Avon (1564-1616). L’avrebbe confermata due anni prima di morire in una lettera a Patmore (1887): "Shakespeare andò alla scuola del suo tempo. Era il Rinascimento: gli antichi classici erano studiati in profondità e con entusiasmo e influenzavano tutto, direttamente o indirettamente; inoltre, l’Umanesimo aveva dato vita a una breve ma brillante combinazione con la tradizione medievale". A tale profilo culturale sintetico, secondo Hopkins, rispondeva nel Bardo sul piano antropologico "una vera umanità dello spirito, né sdolcinata né arrogante" che impreziosisce ulteriormente l’inusitata "ampiezza della sua natura umana" (lettera a Dixon, 1881): "Chiamiamo Platone e Shakespeare grandi menti, ma è a Platone e a Shakespeare che ci riferiamo, e non solo alle loro menti. Poi diciamo che un uomo è un cuore appassionato, proprio con questa espressione, un cuore grande e così via: ma è a tutto l’uomo che ci riferiamo e non solo al suo cuore" (sermone, 1881). Come non scorgere dietro queste sue parole l’invito alla completezza, che potrebbe qualificare una sorta di consapevole approccio personalista all’esperienza umana e creativa del Bardo, oltre che alla letteratura nel suo complesso, il cui "unico critico letterario giusto è Cristo" (lettera a Dixon, 1878). Basta forse questa breve ghirlanda di citazioni per far intuire che, nell’arco della breve vita di Hopkins, il suo "Shakspere" (questa l’ortografia del nome del Bardo preferita dal nostro poeta) assunse caratteristiche sempre più chiaramente riferibili a una tradizione ermeneutica ottocentesca di matrice cattolica, confermando le sue iniziali inclinazioni criptocattoliche: ad esempio, un’equidistanza rispetto alle varie posizioni della ricezione shakespeariana di matrice nazionale o estera, whig o tory, anglicana o protestante, scientifica o esperienziale; una personale ed equilibrata articolazione del cosiddetto Victorian medievalism, depurato da taluni eccessi intellettualistici o spiritualistici; una sempre crescente consapevolezza del ruolo istituzionale della shakesperotics "cattolicamente ispirata", con funzione eminentemente critica nei confronti delle istituzioni shakespeariane dominanti in quel periodo e dei maître-à-penser più attivi e più autorevoli in quell’ambito. In quest’ultima prospettiva andrebbero più accuratamente indagati sia gli interminabili dibattiti coevi sull’effettivo credo religioso del Bardo; sia, per quanto riguarda Hopkins, il suo sonetto incompiuto Shakspere, che risale al 1865 e costituisce un importante ed emblematico contributo, seppure tardivo, al tricentenario shakespeariano celebrato nel 1864. Un’indagine su quel testo poetico confermerebbe quanto ricordava Romano Guardini al termine di una breve ma illuminante serie di Riflessioni Estetico-Teologiche sul sonetto The Windhover: "Hopkins (…) non soltanto era continuamente colpito dalla potenza delle forme, ma trascorreva un tempo considerevole, ogni giorno, immerso nella meditazione religiosa. Da questa meditazione scaturiva una sorgente di vivide rappresentazioni, orientate verso la realtà della fede, che potevano poi confluire in ogni pensiero e azione della giornata". (©L’Osservatore Romano – 25 agosto 2010)