Il futuro è di Dio

“L’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo”. È un messaggio di speranza quello che il Papa ha lasciato agli educatori e agli alunni del Pontificio Seminario Romano Maggiore, dove si è recato in visita nel pomeriggio di venerdì 8 febbraio, in occasione della festa della Madonna della Fiducia. “Da cristiani abbiamo un futuro: il futuro è nostro, il futuro è di Dio” ha detto mettendo in guardia dal rischio di cedere al “falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito” o di indulgere a un “falso ottimismo” secondo il quale “va tutto bene”. In realtà – ha ammesso – “ci sono anche cadute gravi, pericolose, e dobbiamo riconoscere con sano realismo che così non va. Ma anche essere sicuri che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo nasce di nuovo”. Perché “il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo”.
Nella lectio divina svolta nella cappella maggiore del seminario il Pontefice, commentando i versetti 3-5 della prima Lettera di San Pietro, ha richiamato la figura del pescatore di Galilea. Descritto come “l’uomo che ha peccato, che è caduto”, ma anche come “l’uomo che ha trovato Gesù” ed è diventato “portatore del suo amore” attraverso la sua missione di “primo apostolo” e “vicario di Cristo”. Proprio in questa veste egli non parla come “individuo” ma come “uomo della Chiesa”. E perciò “porta in sé realmente le acque della fede, di tutta la Chiesa”, nella quale i “diversi carismi” e i “diversi temperamenti” si uniscono nella “comune fede”. Ricordando poi il passaggio di Pietro da Gerusalemme a Roma – dove sarebbe andato incontro alla crocifissione – Benedetto XVI ha sottolineato la centralità dell'”aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse”. E in proposito ha fatto riferimento al dramma dei cristiani perseguitati ancora oggi in molte parti del mondo. A riprova del fatto che chi vive alla sequela di Gesù sperimenta continuamente il “paradosso di gloria e croce”. Perché – ha spiegato ripetendo le parole del testo petrino – “siamo eletti” ma anche “dispersi e stranieri”. E questa dimensione “appartiene alla nostra vita: è la forma di essere con Cristo crocifisso”.

(©L’Osservatore Romano 10 febbraio 2013)