Il fattore «R»: analfabeti religiosi?

Lo chiamano fattore «R», dove la sedicesima lettera dell’alfabeto sta per «religioso». E nella Penisola è sempre più un grande sconosciuto. Meno di un italiano su tre riesce a citare correttamente tutti e quattro gli evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni).

Neppure uno su quattro sa indicare le tre virtù teologali (fede, speranza e carità). Figurarsi quando c’è da addentrarsi fra le pieghe della Scrittura. Domandare chi ha dettato i dieci Comandamenti significa vedersi citare in otto casi su dieci un nome impossibile. E poi sentirsi dire che la «mano» è stata quella di Mosè (22%) o di Gesù (9%), finché non si arriva alla risposta giusta: Dio (indicato dal 49%).

Del resto appena il 29% ammette di leggere la Bibbia. Ecco, l’Italia fa i conti con l’ignoranza del sacro: sia quello d’impronta ebraico-cristiana da cui traggono linfa le nostre radici, sia quello connesso ai flussi migratori che hanno trasformato il paesaggio delle fedi nel Paese. Un vuoto indagato nel volume «Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia» che sarà pubblicato da Il Mulino nei prossimi mesi e che oggi, alle 16, viene presentato in anteprima nell’incontro promosso dall’Ambrosianeum di Milano e dalla Fondazione Giovanni XXIII di Bologna: evento che si terrà presso la sede stessa dell’Ambrosianeum e che darà il via al progetto «Godcity» all’interno di «Bookcity Milano».

Lo studio contiene una fotografia statistica scattata dalla Tavola valdese con 800 interviste effettuate dall’istituto Gfk-Eurisko su un campione rappresentativo dell’intera popolazione italiana e rielaborata per l’indagine. Un’istantanea che questo pomeriggio sarà illustrata da Paolo Naso, direttore del master in religioni e mediazione culturale all’Università La Sapienza di Roma. «Regna una grande confusione – sottolinea il docente –. Le nozioni sulla Sacra Scrittura sono minime e, ad esempio, non si coglie la differenza fra risurrezione e reincarnazione. Venendo meno una grande memoria circolare, si sono persi gli elementi su cui si fonda il fattore “R”. E non è stato declinato al plurale tutto ciò che attiene alla fede».

Eppure la dimensione religiosa non è ai margini della vita quotidiana se è vero – come mostra la rilevazione Eurisko – che tre italiani su quattro pregano anche fuori delle celebrazioni, rivolgendosi a Dio (47%), alla Vergine (31%), a Cristo (21%) e ai santi (12%). «Non solo – afferma Naso –. Dalla ricerca emerge che gli italiani si aspettano risposte al loro bisogno di sacro dalla scuola o dall’università, dai media e dalle parrocchie o dalle comunità religiose di appartenenza. Ma i riscontri che giungono dal pianeta istruzione e dai mezzi di comunicazione sono considerate insoddisfacenti, mentre per gli intervistati le parrocchie svolgono un ruolo educativo importante in una società plurale».

«Non si tratta tanto di analizzare un fenomeno sociale – spiega il curatore del volume, Alberto Melloni, docente di storia del cristianesimo all’Università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII che ha voluto il progetto –. Invece vanno comprese le ragioni profonde che riguardano la struttura culturale della Penisola. L’assunto sulla nazione cattolica che è stato eccessivamente ideologizzato ha fatto sì che si sia radicato il concetto che l’Italia possieda un substrato religioso unitario e che dunque non abbia bisogno di conoscenza. Poi la sua storia recente, dall’Unità in poi, ha visto realizzarsi la cacciata della teologica dalle università di Stato e l’illusione di chiudere l’insegnamento religioso prima nei Seminari e poi in un’unica ora a scuola. Così è affiorata una buona dose di ignoranza che accomuna credenti e non credenti, praticanti e non praticanti».

In aula la fede è marginalizzata. «Oggi l’unico luogo in cui avviene un po’ di alfabetizzazione religiosa generica – prosegue Melloni – è l’ora di religione cattolica. Invece se guardiamo alle altre materie, come quelle letterarie, artistiche o storiche, che chiederebbero un minimo approccio teologico, si fa davvero poco». Non va meglio negli atenei. «Il mondo accademico non riesce a cogliere la valenza culturale dell’elemento religioso», chiarisce Naso.

Una delle conseguenze è l’impossibilità di leggere il “tesoro Italia”. «Senza le coordinate che permettono di avere un’idea su che cosa accadde col passaggio del Mar Rosso o che cosa sia l’Ultima Cena non possiamo comprendere parte delle opere letterarie, artistiche o musicali concepite qui», sostiene il docente della Sapienza. E Melloni aggiunge: «Certo non possiamo fermarci a un criterio comparatistico.

La cifra religiosa non ci serve soltanto a interpretare il passato, ma è essenziale anche per essere persone con una coscienza critica e una sensibilità raffinata in grado di capire e apprezzare le differenze. Altrimenti il rischio è che le diversità vengano colte con la lente della paura. Ad esempio l’antenna del sospetto fa percepire che la principale minoranza religiosa in Italia sia quella musulmana e non, com’è in realtà, la confessione ortodossa».

Alcune vie per rispondere all’analfabetismo religioso possono essere percorse. «Nel rapporto – conclude Melloni – vengono messe in luce buone pratiche ospedaliere, cimiteriali o carcerarie. Però occorre anche una formazione universitaria. In futuro il Paese avrà bisogno di ottimi medici, ma anche di intellettuali con una significativa competenza teologica che contribuiscano ad affrontare i problemi legati al dialogo interculturale e all’integrazione sociale».

 

Giacomo Gambassi – avvenire.it

teologia.bibbia