Il farmacologo. «Meno farmaci, basta consumismo»

Il farmacologo compie 90 anni e chiede più selezione nelle procedure per aggiungere altri prodotti al Prontuario: «Lo Stato deve accogliere solo ciò che serve veramente per i pazienti e sostenere chi si occupa di malattie rare»

«I farmaci divengano sempre più strumenti di salute e non semplici beni di consumo». L’auspicio di Silvio Garattini, tratto dal suo recente libro Farmaci sicuri. La sperimentazione come cura (scritto con Vittorio Bertelè, edito da Edra) non è affatto ovvio se si tiene presente la gran quantità di prodotti in Prontuario. Dopo essere stato per decenni direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Garattini – novant’anni compiuti da poco – ne presiede ora il consiglio di amministrazione e continua a indicare nella scienza il criterio-guida per valutare le cure: «Purtroppo nel nostro Paese la scienza non è considerata parte della cultura, e il metodo scientifico non poco noto».

Tanti farmaci in commercio, ma quanti davvero innovativi? La legge europea stabilisce che per essere approvato dall’Ema (l’Agenzia europea dei medicinali) un farmaco deve avere qualità, efficacia e sicurezza. Però non sappiamo se è meglio o peggio dei farmaci che già esistono, perché non si fanno studi di questo genere. Diverso sarebbe se fosse richiesto anche un ‘valore terapeutico aggiunto’: avremmo un farmaco che migliora la terapia. Non ci sono confronti per dire che è meglio usare un anti-ipertensivo piuttosto che un altro. La scelta del medico è lasciata all’informazione, gestita perlopiù dall’industria che promuove i suoi prodotti.

Che fare, se la legge europea richiede queste caratteristiche? L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha due funzioni: se un farmaco è stato approvato dall’Ema (l’autorità europea, ndr) e l’industria fa la domanda in Italia, l’ente nazionale lo fa mettere in commercio, e chi vuole se lo paga. Ma la seconda funzione è scegliere, tra i farmaci approvati dall’Ema, quali siano da rimborsare da parte del Servizio sanitario nazionale. Qui l’Aifa potrebbe usare il criterio del ‘valore terapeutico aggiunto’. Oggi abbiamo più di mille farmaci in Prontuario e spendiamo sempre di più: circa 22 miliardi in un anno, il 20% del fondo sanitario nazionale. Nel 1993 – quando alla Commissione unica del farmaco (Cuf) facemmo una revisione sistematica del Prontuario – la spesa per farmaci era di circa 9 miliardi. E nel 2004, un decreto fece pagare ad aziende e Regioni lo sforamento della spesa prevista, che era il 13% del fondo sanitario. Di recente il ministro della Salute Giulia Grillo si è posta il problema della governance farmaceutica, e mi ha coinvolto in un tavolo tecnico incaricato di stendere linee guida.

Le aziende fanno pesare i costi per gli investimenti e il valore di attività con personale qualificato. Non vanno garantite? Sì, ma la salute è un bene primario e quindi deve essere protetta dallo Stato nei confronti del mercato. Il Servizio sanitario deve accogliere solo ciò che serve veramente per i pazienti. Se prevalesse la richiesta del valore terapeutico aggiunto, verrebbero approvati meno farmaci. Ma non sarebbe del tutto negativo neanche per l’industria: i suoi prodotti, prima di essere superati, avrebbero una vita più lunga. E i sistemi sanitari nazionali offrono un mercato garantito: quasi nessuno potrebbe comperare molti farmaci ai prezzi attuali.

Nel suo libro lei indica come priorità malattie rare, oncologia e politerapia. Perché? L’industria fa qualcosa, ma non può occuparsi solo delle ma-lattie rare perché i ritorni economici sono molto bassi. Potrebbe trovare spazio un’imprenditoria senza scopo di lucro, favorita dallo Stato. Sull’oncologia c’è bisogno di mettere ordine: tra i tanti prodotti resi disponibili, occorre più ricerca indipendente. Sulla politerapia non esistono studi, ma la popolazione anziana che assume più di un farmaco è in aumento, e le interazioni richiedono di essere studiate.

I tumori inducono spesso i pazienti a fidarsi di terapie non convalidate. Come ovviare? Occorre fidarsi di più del metodo scientifico, frutto di un lungo percorso. Negli anni Cinquanta per approvare un farmaco bastavano 5 ricette di primari ospedalieri che indicavano che era attivo e non tossico. Oggi servono sperimentazioni, dai trialpre-clinici a quelli sull’animale, prima di passare all’uomo: un percorso serio, anche dal punto di vista etico. Se si sperimenta su uomini tra i 18 e i 50 anni ci saranno pochi effetti collaterali, ma se poi il farmaco verrà usato da chi ha più di 65 anni non si sa cosa succederà. Altri problemi pongono la scarsa disponibilità dei dati e la possibilità di ricerche indipendenti dall’industria per i farmaci sottoposti all’Ema. Dai vaccini a Stamina, perché i dati scientifici sono spesso ignorati? In Italia prevale la cultura umanistica: se si sbaglia su Virgilio si è messi alla berlina, ma se si confondono atomi con molecole nessuno fa una piega. E si presta fede a chiunque faccia promesse, senza chiedergli conto della fondatezza delle sue teorie. Manca – sin dalla scuola – la conoscenza dei fondamenti della cultura scientifica. Ma se devo decidere se vaccinarmi lo posso chiedere solo alla scienza: un’attività umana con i suoi errori, che però ha in sé una grande capacità di correggerli, perché non va avanti se non è riproducibile.