Il dono del tempo presente

di: Francesco Cosentino

speranza

Non c’è niente di peggio di questa crisi, se non il rischio di sprecarla. Le parole di papa Francesco riescono come sempre a leggere in profondità il tempo che viviamo, stanandoci dalla tranquillità dell’abitudine e della routine religiosa, ecclesiale e pastorale cui siamo soliti accomodarci.

Se una crisi produce una ferita, infatti, non bisogna dimenticare che un dolore più grande potrebbe accovacciarsi alla nostra porta se quella crisi tentassimo di tacerla, negarla, liquidarla come una passeggera parentesi. O, per dirla in positivo, «la crisi molto spesso nasconde un’immensa Grazia… c’è quindi una lezione da imparare anche dai tempi difficili che stiamo vivendo»

La domanda del nostro discernimento ecclesiale e pastorale dovrebbe essere questa: quale lezione possiamo imparare dalla pandemia? Qual è la grazia nascosta dentro la crisi che stiamo vivendo? Qual è il tesoro disseminato nel campo di questo tempo incerto, per il quale dobbiamo vendere tutto?

Senza volgersi indietro

L’economista Premio Nobel per la Pace 2006 Muhammad Yunus ha pubblicato su La Repubblica un interessante riflessione, dal titolo: «Non torniamo al mondo di prima». L’ansia di ritornare alla cosiddetta normalità tacita la domanda su che tipo di mondo fosse quello di prima e se fosse davvero «normale». L’inquinamento di prima, l’economia ingiusta dello scarto, l’uso smodato delle risorse, il predominio del mercato, il modello consumistico che presiede le nostre società, è normale? Oppure questo potrebbe essere il momento storico per chiederci che tipo di persone vogliamo essere e che tipo di mondo vogliamo costruire? Yunus non ha dubbi e pone un serio interrogativo: «Riportiamo il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del Coronavirus o lo ridisegniamo daccapo? La decisione spetta soltanto a noi»

A mio parere, anche la Chiesa deve porsi onestamente davanti a questa domanda. Per non rischiare di essere per l’ennesima volta una Chiesa «fuori dal mondo», una specie di «pianeta parallelo» dove la spiritualità diventa una fuga dall’incarnazione nel reale, l’ancoraggio a Dio un modo per sentirci diversi e superiori rispetto alle domande e alle ricerche dell’umanità, la preghiera una via per sposare un soprannaturalismo saccente, e la scusa di essere altro da questo mondo e di non essere «del mondo», un alibi per essere e vivere da «separati».

L’obiezione secondo cui noi dovremmo seguire un altro criterio non regge. Anche perché, a dirla tutta, la domanda che da più parti si sta levando circa il ritorno alla normalità, è sostanziata di Vangelo. Ogni pagina che racconta la missione di Gesù ci consegna in filigrana lo scontro – talvolta drammatico – sulla novità che egli intende inaugurare e l’ostinata rigidità di chi è preoccupato solo di conservare il presente e, con esso, la propria tranquillità. Il mondo normale di prima, quello sistemato, religioso, incastrato nella legge, è ciò che i farisei e i dottori della legge difendono con i denti, dinanzi al vino nuovo della festa con cui uno stravagante Messia vuole inebriare la vita; con l’ossessione per l’osservanza esteriore dei precetti tentano di frenare l’onda travolgente della buona notizia del Vangelo, che si presenta come perenne novità e invito a camminare, cambiare, convertirsi: perché la relazione con Dio, d’ora in poi, investe tutta la vita e il costante movimento in cui essa è inserita.

Ecco perché il Regno dei Cieli, dice Gesù, non è per coloro che mettono mano all’aratro e poi si volgono indietro. La conservazione, i pugni chiusi che stringono forte l’esistente, la strenua difesa dello status quo non appartengono alla logica di Dio. Chi guarda indietro alle cipolle d’Egitto e non marcia avanti a sé verso la Terra promessa, rischia di perdere, barattandola, quella libertà a cui è stato chiamato. Viceversa, per andare dove va Gesù non bisogna volgersi indietro: «Saremo pronti se ci abbiamo pensato bene. E ci penseremo bene, solo se lo avremo voluto. Se vogliamo veramente seguire Gesù, domandiamoci dove va. Forse va in un posto dove non si può dormire, in cui si sta scomodi…».

Perché per la Chiesa non dovrebbe ascoltare questo monito e continuare a muoversi nelle acque paludose della nostalgia del passato?

Non è una parentesi

Dobbiamo di certo riprendere le attività pastorali e tutto ciò che occorre perché la fede del popolo di Dio riceva il suo nutrimento quotidiano. Tuttavia, la pandemia e il lockdown, sopraggiunti in un tempo già segnato da una crescente disaffezione nei confronti della fede e da un lento ma progressivo spegnimento dell’appartenenza ecclesiale, ci chiedono di fermarci e riflettere insieme, prima di riempire nuovamente le nostre agende parrocchiali.

Siamo stati già rapiti abbastanza, durante i mesi scorsi, dall’ansia della spoliazione e dalla sindrome di perdere il controllo. Il vuoto che si è venuto a creare, per non aver potuto celebrare l’eucaristia e per non aver potuto soddisfare la scaletta delle nostre attività programmate, è stato spesso mal sopportato e sono stati fatti molteplici tentativi – alcuni veramente goffi e bizzarri – per riempire quella “solitudine” che invece poteva essere una vera benedizione.

Ora non è il tempo di riprendere «come se nulla fosse». Come ha scritto il vescovo di Pinerolo, Olivero, che ha rischiato di morire a causa del Coronavirus: «Questa non è una parentesi. Si deve tornare con delle novità e dei cambiamenti. A livello di Chiesa torneremo diversi. Dio ci ha fatto capire che si può essere Chiesa diversa».

Dobbiamo semplicemente ritornare come prima? Dobbiamo riprendere a celebrare le stesse messe di prima e nelle stesse identiche modalità? Dobbiamo semplicemente riprendere lo stesso impianto pastorale e appiccicarlo a questo tempo? Il seme della Parola, circolato nelle case e con ogni altro mezzo durante il lockdown deve essere considerato un’eccezionalità da ricacciare nel dimenticatoio o, piuttosto, dovremmo riflettere su come l’avevamo trascurato, preferendo un cristianesimo devozionistico, superficiale, sacramentalizzato, senza percorsi formativi, senza spazi culturali, senza fede domestica e senza la centralità della Scrittura?

Non ci sono risposte facili, ma almeno possiamo provare a porci le domande. Meglio se ogni parroco lo facesse con la propria comunità e, ancor più, se i preti lo facessero insieme. Se ci volgiamo indietro anche ora, perderemo l’ora del passaggio di Dio che desidera far nuove tutte le cose.

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