Il contributo dell’arte alla nuova evangelizzazione: In cerca della bellezza

di PAOLO PORTOGHESI

Il momento storico che stiamo attraversando è un momento di profonde trasformazioni, di eventi inquietanti che suscitano insieme disperazione e speranza. La società del consumismo e della globalizzazione dei mercati deve fare i conti con una economia impazzita, con una terra non più disposta a sopportare il duro conflitto impostogli dallo sviluppo tecnologico e un mondo in cui lo squilibrio tra privilegiati e sfruttati continua ad aumentare. Di fronte a questa situazione l’esigenza di “voltare pagina” si sta diffondendo però più nel tessuto sociale che nei governanti.
Si sta creando una situazione in cui crollate le grandi costruzioni ideologiche del secolo passato, dopo una fase di abbandono a un fragile edonismo, riemerge la necessità di porsi le domande: chi siamo? Da dove veniamo? Dove siamo diretti? Domande che chiamano in causa drammaticamente le tradizioni religiose e con particolare intensità il cristianesimo. Il grande tema che si pone è quello di una ri-evangelizzazione ed è giusto chiedersi in che misura rispetto a questo programma può essere invocato il ruolo dell’arte e della bellezza.
Giovanni Paolo II, rivolgendosi agli artisti, aveva ricordato la frase attribuita dal nichilista Ippolit al principe Miskin nell’Idiota di Dostoevsky: “La bellezza salverà il mondo”, riconoscendo che, “persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione”.
Ma è veramente la bellezza qualcosa di univoco alla quale ci si può affidare senza diffidenza? “La bellezza è una cosa terribile e paurosa, perché indecifrabile (…) perché Dio non ci ha dato che enigmi – afferma Dimitri Karamazov – qui tutte le contraddizioni coesistono (…) è qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”
Alla bellezza ci si può abbandonare fiduciosi o bisogna riflettere e scegliere. Benedetto XVI ci invita alla riflessione: “Troppo spesso però la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli a orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza invece schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Oltre da sé”.
Nel mondo in cui viviamo la “bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi (…) ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza”. Anche questa riflessione di Hans Urs von Balthasar è ripresa da Papa Benedetto nel suo memorabile discorso rivolto agli artisti nella Cappella Sistina nel novembre del 2009. Occorre quindi distinguere tra una “autentica” bellezza che ci attira verso l’alto e una bellezza illusoria che ci imprigiona. Una è essenziale nel programma di ri-evangelizzazione, l’altra gli si pone in antitesi perché è stata ed è alla base della secolarizzazione, del nichilismo dell’eclissi del divino dalla nostra società.
Il discorso vale anche per l’arte del nostro tempo che non ha più però come obiettivo centrale la bellezza ma la esteticità e in molti casi vanta il rifiuto della bellezza come un aspetto dello “spirito del tempo”. Il cosiddetto post-moderno, che pure aveva acceso delle speranze come uscita dalla aridità del modernismo, si è rivelato un pretesto per ridurre l’arte a espressione individualistica e autoreferenziale e per esplorare ogni possibile allontanamento dallo statuto tradizionale che vedeva il raggiungimento della bellezza come la garanzia di una avvenuta comunicazione tra l’opera e il fruitore. La ri-evangelizzazione ha certamente nell’arte cristiana uno strumento collaudato ed efficace perché nella straordinaria ricchezza di esperienze che la caratterizzano nelle diverse epoche emerge nettamente un filo conduttore: la volontà di avvicinarsi ai misteri della fede e di rendere visibile l’invisibile. La città di Roma sotto questo aspetto è una fonte inesauribile di testimonianze di come i cambiamenti della visione del mondo, dei gusti e della sensibilità abbiano consentito vie di avvicinamento sempre variate a questi misteri, che lette in sequenza formano una grandiosa unità per il visitatore moderno al quale offrono una straordinaria esperienza intellettuale ed emotiva. Poter visitare nello stesso tempo la casa dei santi Giovanni e Paolo, martirizzati nel IV secolo, le catacombe, il tempietto del Bramante e Sant’Ivo alla Sapienza, o osservare a poca distanza di tempo le prime immagini dipinte della Madonna e la cappella Contarelli di Caravaggio, significa capire come l’arte ha saputo offrirci non solo il modo di comprendere lo spirito di un’epoca ma nello stesso tempo di cogliere la continuità di una ispirazione religiosa che declina in forme diverse uno stesso messaggio continuamente arricchito per dimostrare la sua inesauribile capacità di parlare al cuore degli uomini.
Bene ha fatto l’Opera Pellegrinaggi a creare con l’ausilio di mezzi di trasporto degli itinerari che rendono possibile raggiungere e confrontare i luoghi della Roma cristiana offrendo a chi viene da lontano la possibilità di capire meglio il senso di una città che ha trovato nel cristianesimo una congeniale capacità di mettere insieme, come oggetto di meditazione, la caducità e la durata, la solennità e l’umile semplicità della vicenda quotidiana.
Non ultima delle attrattive di Roma e di molti luoghi a essa vicini, sono le oasi di silenzio in cui l’ascolto dell’opera d’arte diventa più ricco e pregnante. Molte chiese hanno conservato questa condizione ideale e anche qualche angolo superstite difeso dalle angustie del traffico, luoghi alti e isolati da cui la città rimane leggibile come fatto unitario, come organismo vivente, dove i segni sacri, le cupole, i campanili, le cuspidi, gli angeli e i santi che coronano portici e facciate, si collegano a distanza in una sorta di sacra conversazione.
Sembra allora di sentire il canto dei giovani della fornace che si può leggere nel libro di Daniele: “Benedetto il tuo nome glorioso e santo / Degno di lode e di gloria nei secoli. / Benedite stelle del cielo, il Signore, / lodatelo ed esaltatelo nei secoli. / Benedite, piogge e rugiade, / Benedite o venti tutti, il Signore. / Lodatelo ed esaltatelo nei secoli”.
Ma possiamo accontentarci di constatare che nella eredità dell’arte cristiana riposa questo potenziale di ri-evangelizzazione al quale possiamo e dobbiamo attingere? Credo di no. Dobbiamo fare in modo che al coro delle testimonianze del passato si unisca con non minore intensità la voce del nostro tempo: “Il tempo della notte del mondo – ha scritto Heidegger – è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza”.
Come utilizzare quei fermenti che emergono continuamente nel dibattito attuale e che, anche nel mondo dell’arte, dimostrano un’ansia di “voltare pagina”? E che ruolo può avere un richiamo al ruolo salvifico che la bellezza, quella autentica, può esercitare?
Forse la crisi economica che stiamo attraversando può essere uno stimolo a ricercare quello che negli ultimi decenni è sparito dall’orizzonte in ossequio ai riti del consumismo: la solidarietà, la convivialità, la frugalità, lo spirito del dono, la lotta contro lo spreco, l’impegno nelle relazioni umane come valore contrapposto a quello del danaro. In questo senso la tradizione del volontarismo delle organizzazioni cattoliche è una premessa essenziale.
La formula della decrescita lascia perplessi perché – come si afferma nell’enciclica Caritas in veritate – l’uomo è proteso verso l'”essere di più” , ma ciò non autorizza “l’asservimento dell’uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo”. “Controllare le distorsioni dello sviluppo” è diventato quindi un dovere che si proietta anche su l’universo della cultura e quindi anche su quella parte della produzione artistica che di tale distorsione è stata la vittima illustre, diventando esaltazione di una totale deregulation e predicando la tabula rasa e la distruzione delle radici come indispensabile punto di partenza.
La ri-evangelizzazione ha bisogno della bellezza, della memoria e quindi dell’arte, ma di un’arte che sappia distinguere tra bellezza autentica e bellezza illusoria, un’arte di cui si cominciano a vedere sintomi incoraggianti ma che non è ancora riuscita ad affermarsi e che si muove con timidezza di fronte al coro di una critica monocorde tesa a conservare privilegi di mercato e atteggiamenti di autocelebrazione.

(©L’Osservatore Romano 15 gennaio 2012)