«Il Concilio, un già e non ancora»

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Per i suoi primi novant’anni, che compie martedì prossimo, non ha previsto niente di particola­re. «La festa l’abbiamo fatta, per i cin­quant’anni di episcopato, lo scorso 4 ottobre a Bologna e il 6 ottobre ad I­vrea ». Monsignor Luigi Bettazzi, ve­scovo emerito di Ivrea, storico presi­dente di Pax Christi (il suo impegno di «costruttore di pace» è al centro del re­cente volume di Alberto Vitali, Luigi Bettazzi, Paoline, 158 pagine, 15 euro), ha una vitalità invidiabile. «Dal set­tembre 2012, ho già tenuto 189 confe­renze sul Concilio. La centonovante­sima prossimamente in Lombardia». Ha viaggiato in Italia, ma anche in Al­bania, Georgia, Germania e Tanzania. «Se mi chiamano – spiega – è per sen­tire una parola d’incoraggiamento al­l’accoglienza del Concilio».

Don Luigi, in famiglia eravate sette fratelli, cosa impensabile oggi. Quan­to ha inciso in lei il fatto di vivere in una famiglia numerosa?
«Eravamo in tanti, ma quella di avere tanti figli fu una delle grazie che mia madre chiese prima di sposarsi. Io? Forse ho imparato a essere sottomes­so ». Sottomesso lei? Sta scherzando… «No, ho sempre chiesto il permesso prima di fare qualche cosa. Anche per la famosa assemblea sul Vietnam, nel 1973. E quando con altri volevamo proporci come ostaggi alla Br in cam­bio di Aldo Moro, ci fu proibito, e non facemmo nulla».
Intanto a 40 anni era già vescovo. Dif­ficile che accada oggi, quando un qua­rantenne viene guardato come fosse ancora un “bambino”.
«Vescovo ausiliare a Bologna. Sotto­messo, sia pure con un uomo mite e timido come il cardinale Lercaro…».
E giovanissimo partecipò al Concilio.
Siamo rimasti in molti pochi in Italia (gli altri sono i cardinali Angelini e Ca­nestri, i vescovi Leonardo e Nicolosi più l’allora abate di San Paolo Fuori le Mura, Franzoni) e 32 in tutto il mon­do, i dati sono aggiornati a fine mar­zo. Ne muoiono una ventina all’anno, di “reduci”…».
Che cosa è stato sicuramente realiz­zato, del Concilio, e che cosa invece resta da fare?
«Il Concilio è un “già e non ancora”. Ad esempio, la Parola di Dio si legge di più, ma non è ancora fondamentale nella vita di tanti cristiani. La liturgia è più partecipata ma tutt’altro che compiuta. La collegialità è cresciuta ma non abbastanza, e i fedeli laici con­tano ancora pochissimo. Certo, è un segnale positivo il gruppo di otto car­dinali che papa Francesco ha voluto accanto a sé».
Lei è uno dei tanti mancini costretto a scrivere e a stare a tavola usando la destra. C’è qualcos’altro che fu “co­stretto” a fare di malavoglia?
«Il vescovo! Quando Lercaro me lo chiese, obiettai che avevo scarsa e­sperienza pastorale, ero un insegnan­te, solo per poco tempo parroco. “Pos­so rifiutare?”, domandai. “Solo in due casi potresti – replicò Lercaro – se hai ammazzato qualcuno o hai dei figli”. E io: “Quanto tempo mi dà?”. Finii con l’accettare».
Nella Chiesa lei è stato protagonista di confronti molto franchi, a volte per­fino aspri. Ne ricorda uno tutto som­mato finito bene, tra fratelli, di idee diverse ma che si stimano?
«Da presidente di Pax Christi assume­vo posizioni “insolite”. Sul Vietnam. O sull’obiezione di coscienza: era il 1971 e mi guardavano come un marziano. Adesso è data per scontata. Sulla Let­tera a Berlinguer , il patriarca Luciani scrisse cose severe. Ci “chiarimmo” quasi casualmente, incrociandoci al­la stazione di Terontola alla volta di As­sisi. Accettò di fare il viaggio con me in seconda classe, e mi chiese di “non tur­bare la fede della gente”».
Lei è uno dei firmatari della “Lettera dei 500 padri”, pochi giorni prima del­la chiusura del Concilio, in cui assu­mevate impegni molto rigorosi, tutti nel segno della povertà. Papa France­sco sta facendo molte cose simili…
«Fa quello che faceva a Buenos Aires. Spero vivamente che il suo stile si diffonda. D’altronde l’ha detto: quel che deve fare lo farà in fretta, subito. E quando sentirà le forze venir meno, sono convinto che anche lui lascerà il posto a un altro».
Di che cosa la Chiesa cattolica do­vrebbe liberarsi?
«Dovrebbe modificare la sua struttu­ra, e mi sembra che proprio questo ab­bia chiesto Francesco. Ad esempio, se il presidente della Cei non è scelto dai vescovi ma dal Papa, è solo al Papa che dovrà rispondere, e a quel punto il dia­logo e il confronto potrebbero anche diventare difficili. Non è colpa di nes­suno, sia chiaro. È lo statuto da modi­ficare. Poi c’è ancora troppo clericali­smo. E se lo scrive perfino Sviderco­schi nel suo recente Il ritorno dei cle­rici… Infine i movimenti: molto effi­caci, dovrebbero insieme sforzarsi di aprirsi».
E dove la Chiesa dovrebbe indirizza­re innanzitutto le proprie energie?
«In questo momento, contro la corru­zione! Lo hanno ricordato anche il Pa­pa e Bagnasco. Peggio d’ogni peccato, essa rovina l’anima e il tessuto socia­le. Se non la estirpi, sarà impossibile costruire la solidarietà, che per me è il vero principio non negoziabile, sul quale si fondano la tutela della vita e la promozione della famiglia e del la­voro ».
Giochiamo con la fantasia. Quale pro­posta voterebbe con entusiasmo a un’assemblea della Cei?
«Qualsiasi proposta contribuisse a da­re più spazio e rilievo alla collabora­zione dei laici, a ogni livello, compre­si i giovani. Non basta dir loro che co­sa devono fare, occorre saper cogliere le spinte di rinnovamento che sorgo­no dal popolo di Dio. Noi pastori ab­biamo l’ultima parola; ma sarà l’ulti­ma se ce ne saranno state altre prima».
C’è qualcosa che non rifarebbe?
«Ho sempre rimpianto di non essere partito missionario. E poi avrei voluto potermi impegnare di più in parroc­chia ».
E qualcosa di cui invece va partico­larmente orgoglioso?
«Fui così ingenuo da accettare la no­mina a presidente di Pax Christi. Pri­ma di me avevano rifiutato in cinque. Ma ciò che più mi ha riempito il cuo­re sono le parole degli alcuni che mi hanno detto: “La ringrazio perché se sono ancora nella Chiesa è per lei”».
Per che cosa le piacerebbe essere ri­cordato?
«Per la fede nel Signore, l’amore alla Chiesa e la fiducia negli uomini di buo­na volontà».
Umberto Folena – avvenire.it