Il cattolico disorientato

di Roberto Beretta | 12 ottobre 2017  in vinonuovo.it
Non è mai simpatico sentirsi dire, dopo una vita di lotte per mantenersi passabilmente coerenti con quanto veniva predicato, che invece il proprio atteggiamento era almeno in parte sbagliato…

«Ma insomma, possibile che non ne combiniamo una giusta? Cerchiamo di fare del nostro meglio, di essere obbedienti e osservanti della gerarchia, e poi dobbiamo sorbirci anche le continue rampogne del Papa perché non siamo quello che dovremmo essere?!?». Si esprime spesso in questi termini popolari la difficoltà che riscontro in non pochi cattolici nell’accettare la critica «interna», quella che viene cioè dai fratelli di fede o addirittura dalle gerarchie (in primis appunto Papa Francesco): incompresi e ridicolizzati da fuori, bastonati pure in casa propria.

E un po’ mi fanno tenerezza – dico la verità – queste reazioni, perché in gran parte provengono da persone semplici e convinte, uomini e donne che per decenni hanno dato fiducia al clima di militanza assoluta che si respirava in parrocchie e associazioni cattoliche: il bene di qui, il male di là; e non è mai simpatico sentirsi dire, dopo una vita di lotte per mantenersi passabilmente coerenti con quanto veniva predicato, che invece il proprio atteggiamento era almeno in parte sbagliato…

Capisco dunque il disorientamento, e lo rispetto: «Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli». D’altra parte, però, dare una scossa è pur necessario, se è vero ­- come io credo – che il mondo cattolico italiano ha davvero tanti difetti da correggere; e difetti che in parte arrivano da lontano, proprio da quel «lontano» dell’educazione religiosa nella quale (non per colpa loro) tanti credenti sono cresciuti.

Ce ne siamo scordati? Una cultura popolare dove l’ecumenismo, per non parlare del dialogo interreligioso, non esistevano: bisognava anzi tenersi lontani il più possibile dai portatori dell’eresia. Dove la Bibbia era pochissimo praticata e comunque la sua interpretazione doveva attenersi al senso letterale, da credere senza troppe mediazioni. Dove liturgia e devozioni si sovrapponevano in modo fuorviante, come se il Padre nostro e il «Gesù d’amore acceso» avessero lo stesso valore. Dove infine l’unica e definitiva autorità sul cristianesimo era il parroco, contro il quale ogni obiezione sarebbe stata considerata come una rivolta…

Anche se sono ormai passati oltre 50 anni dal Vaticano II (le generazioni post-conciliari, peraltro, non si possono certo dire scevre da altri difetti non meno gravi: ignoranza catechetica, sottovalutazione della morale, perdita di cultura religiosa diffusa…), lo «zoccolo duro» dei cattolici praticanti – coloro appunto che mal sopportano le ramanzine del Papa – è ancora figlio dell’idea di un possesso della verità anche soggettivamente assoluto e incontestabile.

Francesco sta rompendo tale compatto sistema, che circonda di pesanti condizionamenti e discutibili credenze il nostro modo di vivere la fede; ed è naturale che susciti sconcerto anche nelle anime più sincere. Ma si tratta di un urto necessario, benefico. Anzi – come ho avuto modo più volte di scrivere – è esattamente dalla concezione monolitica del cristianesimo che abbiamo bisogno di liberarci, accettandone una visione più «liquida» (o, se preferite, più umile, più aperta, più «in progress»). La differenza è quella tra stare abbracciati a uno scoglio immobile o affrontare le onde del mare: non è facile, però bisogna provarci.