Il cammino dei rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali. Come in un risveglio

L’Osservatore Romano

(Hyacinthe Destivelle, Officiale delle sezione orientale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani) Sul cammino ecumenico della piena comunione tra i cristiani, occorre un triplice sguardo: sul passato, sul presente e sul futuro. Nel 2019 le relazioni con le Chiese ortodosse orientali — che siano di tradizione siriaca, copta o armena — illustrano bene questa necessità.
Lo sguardo sul passato è essenziale innanzitutto per trarre ispirazione dalla nostra storia comune. Con le Chiese ortodosse orientali questo significa risalire al periodo precalcedonese, vale a dire ai primi cinque secoli. La Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali l’ha fatto nel suo documento del 2015, intitolato «L’esercizio della comunione nella vita della Chiesa primitiva e le sue ripercussioni sulla nostra ricerca di comunione oggi». Studiando le espressioni di comunione tra le Chiese nei primi cinque secoli, il documento mostra che «nella maggior parte, in questo periodo queste espressioni di comunione erano informali, cioè non svolte all’interno di strutture chiare». Inoltre, «tendevano ad attuarsi principalmente a livello regionale; non c’era un chiaro punto di riferimento centrale». Infatti, «da un lato, a Roma vi era una crescente consapevolezza di un ministero di più ampia comunione e unità, in particolare dalla fine del III secolo in poi; d’altra parte, non vi sono prove chiare che le Chiese ortodosse orientali abbiano mai accettato un simile ministero» (71). Questa costatazione è un insegnamento importante nell’attuale ricerca della piena comunione con le Chiese ortodosse orientali. Guardare al passato è anche necessario per un’altra ragione: per la purificazione della memoria. La memoria delle nostre Chiese è spesso ferita da una storia conflittuale, alla quale non di rado si mescolano aspetti non teologici di natura culturale, politica o nazionale. Il 2019 ha visto la realizzazione di diverse iniziative in questo campo con le Chiese ortodosse orientali. Nel maggio 2019 si è tenuta ad Addis Abeba una conferenza sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa etiope Tewahedo. Prima iniziativa del genere in Etiopia, l’incontro mirava a rileggere insieme la storia spesso dolorosa dei rapporti tra queste due Chiese, ai quali si aggiunge la spinosa questione dei rapporti tra Italia ed Etiopia. La rilettura di una storia contrastata è anche una delle dimensioni del dialogo della Chiesa cattolica con la Chiesa ortodossa sira malankarese. Uno dei progetti della commissione mista di dialogo con questa Chiesa, che, come ogni anno, si è incontrata in Kerala nel mese di dicembre 2019, è la pubblicazione comune di un “libro di riferimento sulla storia della Chiesa” che intende presentare alcuni documenti sulla storia controversa del cristianesimo in India fino al XVII secolo.
Lo sguardo sul passato è inoltre fondamentale per interpretare le differenze teologiche tra le nostre Chiese. Un approccio ermeneutico deve distinguere, tra le differenze ereditate dal passato, quelle che ci dividono da quelle che sono parte di una legittima diversità nell’espressione di una comune fede. Tale ermeneutica è stata applicata da subito nel dialogo con le Chiese ortodosse orientali, con le quali la separazione è dovuta a ragioni cristologiche. Il dialogo teologico ha permesso di riconoscere che condividiamo una stessa fede cristologica espressa in vario modo, come spiega particolarmente bene la dichiarazione comune del 1990 di san Giovanni Paolo II e del Catholicos Mar Baselios Mar Thoma Mathews i della Chiesa ortodossa sira malankarese: il contenuto della fede cristologica «è lo stesso», anche se «nella formulazione di questo contenuto nel corso della storia sono comparse differenze nella terminologia e nell’enfasi», tuttavia «queste differenze possono esistere nella stessa comunione e quindi non devono dividerci, specialmente quando proclamiamo [Dio] ai nostri fratelli e sorelle nel mondo in termini che possono comprendere più facilmente» (8).
È la stessa metodologia ermeneutica che viene applicata oggi nel dialogo teologico con queste antiche Chiese, che, dal 2015, si è concentrato sui sacramenti. La commissione mista internazionale di dialogo ha tenuto nel gennaio 2019 a Roma la sua sedicesima riunione, dedicata al tema del matrimonio. La commissione ha sottolineato che, nonostante i riti e la teologia del matrimonio abbiano sviluppato tradizioni diverse — in particolare per quanto riguarda la questione del ministro —, la comprensione del matrimonio come sacramento è fondamentalmente la stessa. La commissione si riunirà di nuovo dal 26 gennaio al primo febbraio di quest’anno ad Atchaneh in Libano, su invito del patriarcato siro-ortodosso, per discutere di teologia sacramentale in generale. Questo incontro, che dovrebbe essere l’ultimo passo prima della stesura di un documento comune sull’argomento, includerà probabilmente un’importante dimensione ermeneutica consentendo di discernere una stessa fede sacramentale al di là delle legittime differenze di rito e di espressione teologiche.
Con la Chiesa assira dell’Oriente, che riconosce solo i primi due concili ecumenici, il metodo ermeneutico ha anche dato importanti frutti. Il dialogo ha permesso di riconoscere la validità dell’anafora eucaristica di Adai e Mari, dove le parole dell’istituzione eucaristica «sono presenti non in modo narrativo coerente e ad litteram, ma in modo eucologico e disseminato», come spiega il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani nei suoi Orientamenti del 2001. La commissione mista per il dialogo teologico con questa Chiesa, che ha celebrato a Roma nel novembre 2019 il 25° anniversario della sua creazione, sta attualmente lavorando sulle immagini della Chiesa. La tradizione assira, infatti, ha sviluppato la sua ecclesiologia innanzitutto tramite la sua ricchissima innografia (nella quale la Chiesa viene presentata, ad esempio, come “Arca della salvezza”, “Sposa dello Sposo”, “Ospedale spirituale”, eccetera) che, al di là di un’espressione spesso diversa dalla tradizione latina, comporta una simile comprensione della Chiesa.
Se il dialogo teologico studia il passato per le ragioni sopra esposte, deve anche guardare al presente. In effetti, non solo il passato, ma anche le attuali relazioni tra le nostre Chiese, in tutte le loro dimensioni, sono un locus theologicus. Spetta alla teologia formulare ciò che le Chiese stanno già vivendo oggi sotto la guida dello Spirito Santo. Come il patriarca Atenagora dichiarò laconicamente a proposito del suo incontro con Papa Paolo VI nel 1964: «I capi delle Chiese fanno, i teologi spiegano». I rapporti tra le Chiese riguardano non solo i loro Primati, ciò che viene chiamato il “dialogo della carità”, ma tutti i fedeli, in ciò che può essere chiamato il “dialogo della vita”.
In un momento in cui le relazioni tra le nostre Chiese a tutti i livelli si stanno intensificando, sembra più che mai necessaria una rilettura teologica di questi rapporti, sia nel “dialogo della carità” che nel “dialogo della vita”. È ciò che il sesto Colloquium Syriacum della Fondazione Pro Oriente di Vienna ha intrapreso nel novembre 2019. L’incontro è stato dedicato a una valutazione dei numerosi accordi pastorali tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse di tradizione siriaca, molti dei quali consentono una certa communicatio in sacris: ad esempio l’accordo del 1994 con la Chiesa ortodossa siriaca — primo accordo pastorale reciproco della Chiesa cattolica con un’altra Chiesa — o anche l’accordo del 1994 sui matrimoni misti con la Chiesa malankarese sira ortodossa o quello già menzionato del 2001 con la Chiesa assira dell’Oriente. La conclusione della conferenza è stata un appello a «sviluppare nuovi approcci teologici tenendo conto degli accordi pastorali già esistenti e delle realtà vissute in comune dai fedeli delle nostre Chiese».
Sguardo sul passato e sul presente. Ma sul cammino ecumenico è essenziale anche uno sguardo prospettico verso il futuro. Traendo ispirazione dal passato e attingendo all’esperienza presente, come concepire una Chiesa riconciliata? Questo tipo di considerazione richiede una riflessione sul ruolo del Vescovo di Roma. Nel terzo capitolo di Ut unum sint, intitolato Quanta est nobis via?, Giovanni Paolo II invitava i pastori e i teologi delle diverse Chiese a cercare, «evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (95).
In un documento del 2010 intitolato «Passi verso una Chiesa riunita: schizzo di una visione ortodosso-cattolica del futuro», la commissione nordamericana di dialogo cattolico-ortodosso si è proposta di rispondere a questo invito. Da parte delle Chiese ortodosse orientali, non ci sono state risposte all’invito di Ut unum sint. Infatti, spetta probabilmente alla Chiesa cattolica avanzare una proposta concreta, accettabile per gli ortodossi orientali, sull’esercizio del ministero dell’unità del Vescovo di Roma a livello universale. Proprio su questo Quanta est nobis via? dell’enciclica di cui celebriamo quest’anno il 25° anniversario il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani rifletterà durante la sua prossima plenaria che dovrebbe aver luogo nel novembre 2020.
Lo sguardo sul futuro è necessario anche per non perdere di vista lo scopo del nostro cammino di unità. Quasi cinquant’anni fa, l’11 maggio 1970, subito dopo un’udienza privata con Papa Paolo VI, il Catholicos armeno Vasken i dichiarò che lui e il Papa «ricordavano, come in un risveglio, che siamo fratelli da duemila anni». E continuò: «O Signore, lascia che questo momento duri per sempre, perché è sublime!». Possa questo risveglio continuare in modo che possiamo risvegliare insieme il mondo nell’annuncio del Cristo risorto.
L’Osservatore Romano, 21-22 gennaio 2020