Il bene della fraternità non si compra

Per risanare le ferite profonde delle relazioni primarie della nostra vita (la fraternità), c’è un bisogno vitale di tempo. Non ci riconciliamo veramente se non permettiamo che il dolore-amore penetri fino alle midolla della relazione malata, venga assorbito e, lentamente, la curi. E servono soprattutto azioni, che dicano con il linguaggio del comportamento che vogliamo, veramente, ricominciare.

La seconda parte del ciclo di Giuseppe è una splendida lezione sul processo di ricomposizione della fraternità negata, soprattutto di quelle fraternità spezzate dove esiste una vittima, un innocente, che riesce dopo un lungo e doloroso cammino ad arrivare al perdono e alla riconciliazione. Dopo i primi sette anni di abbondanza («di vacche grasse»), ci fu una durissima carestia, «ma in tutta la terra d’Egitto c’era il pane» (Genesi 41,54). La carestia raggiunse anche Caanan. Giacobbe-Israele «venne a sapere che in Egitto c’era del grano» (42,1), e inviò i suoi figli nella terra del Nilo. I figli partirono, tranne Beniamino, l’ultimo suo e di Rachele, che Giacobbe trattenne con sé, perché, diceva, «che non gli capiti una disgrazia» (42,4), quella disgrazia che era capitata anni prima a quel Giuseppe che li attendeva, diventato “visir”, in Egitto (41,40). Non è raro che siano le “carestie” a farci riconciliare dopo anni di conflitti. Giuseppe, ancora ragazzo, fu venduto come schiavo da quei fratelli che ora, da adulto, nutre con il suo grano, e salva.

Con l’arrivo dei fratelli di Giuseppe in Egitto inizia un capolavoro narrativo della Bibbia. Giuseppe riconosce subito i suoi fratelli, ma «loro non riconobbero lui» (42,8). La Genesi non ci dice molto sulle emozioni di Giuseppe in quell’incontro. Ci dice solo che «fece l’estraneo verso di loro», che «parlò loro duramente» (42,7), e che «si ricordò dei sogni che aveva fatto a loro riguardo» (42,9). Li accusa di essere delle spie, e li fa mettere in prigione. Come prezzo per essere liberati, chiede loro di tornare a casa e di portargli il «fratello più piccolo» (42,15), Beniamino. Nell’attesa, trattiene uno di loro (Simeone) come caparra del loro ritorno (42,24). I nove fratelli ripartono verso Caanan, e Giuseppe orchestra una prima prova per verificare l’effettivo cambiamento del cuore dei fratelli. Insieme al grano fa mettere (a loro insaputa) nei loro sacchi anche il denaro con cui avevano pagato il grano (42,25). Quando apriranno i sacchi – pensava – prenderanno il denaro e non torneranno a liberare Simeone (lo venderanno insomma per denaro, come avevano fatto con lui), o invece torneranno indietro per riscattarlo? “Per quale vera ragione i miei fratelli mi hanno venduto ai mercanti?”, si sarà chiesto Giuseppe negli anni egiziani. “Solo per quei venti sicli d’argento? E ora, faranno altrettanto con un altro fratello? O invece sono cambiati?”

In molti grandi conflitti con i nostri “fratelli”, prima o poi affiora la domanda: ma lo avranno fatto per i soldi? Per l’eredità? Per la casa? Ma è stato veramente per così poco che ci siamo fatti del male, abbiamo spezzato il legame della nostra fraternità, e fatto “morire” i nostri genitori? Tutto questo dolore per soli venti denari?.

I fratelli scoprono il denaro nei sacchi (42,28), ma, dopo aver convinto con difficoltà il padre Giacobbe (43,6-12), tornano in Egitto portando con loro Beniamino, il denaro trovato nei sacchi per restituirlo, e molti doni. Giuseppe ora cambia atteggiamento, li invita a pranzo (43,41), e alla vista di Beniamino «le sue viscere si commossero per suo fratello. Egli sentì il bisogno di piangere: così entrò nella sua stanza e là pianse» (43,30).

Giuseppe non si è ancora rivelato come fratello, perché il processo di ricomposizione della fraternità non si è ancora compiuto. Ed ecco, infatti, un altro colpo di scena: Giuseppe ordina al suo assistente di mettere di nascosto una coppa sacra nella sporta di Beniamino (44,2). Così gli undici fratelli partono verso casa, ma l’assistente li raggiunge e li accusa di aver rubato la coppa. Loro negano, e sicuri della loro innocenza affermano: «Colui presso il quale si troverà [la coppa] sarà messo a morte» (44,9). Ma quando la coppa viene trovata nel sacco di Beniamino, «essi si stracciarono le vesti». Affranti tornano indietro da Giuseppe, dove si svolge la seconda prova del pentimento e della conversione, che tocca il cuore della relazione di fraternità.
Giuda – che era stato l’ideatore della vendita di Giuseppe – parla a suo fratello Giuseppe: «Permetti che rimanga io tuo schiavo invece del ragazzo e che il ragazzo se ne risalga coi suoi fratelli» (44,33). I fratelli hanno già dato prova di voler non scambiare Simone con il denaro, e ora Giuda dice il suo cuore nuovo, offrendosi in cambio di Beniamino.
Dopo certe ferite, per poter ricominciare veramente non bastano le parole, e non bastavano neanche in quella cultura biblica fondata sulla e dalla Parola.

Giuseppe avrebbe potuto interrogare i suoi fratelli e verificare così il loro pentimento. Ha invece voluto vedere, di nascosto, le loro azioni. Dopo un tradimento coniugale, un grande inganno di un fratello o del mio socio, le parole “perdonami”, “scusa” non bastano. Sono necessarie, ma non sono sufficienti: occorrono fatti, comportamenti, espiazioni, penitenze. Non si tratta di vendetta né di ritorsione, ma del loro opposto: è tutto amore. Se hai tradito intenzionalmente il nostro patto matrimoniale, se vogliamo veramente reinvestire nella nostra famiglia e ricominciare, non bastano le parole, né un regalo, né una cena. Occorre che tu mi dimostri con degli atti “costosi” e inequivocabili che vuoi davvero ricominciare, che vuoi veramente credere di nuovo nel nostro rapporto, che vuoi che saniamo insieme quella ferita che hai procurato al nostro rapporto. Il perdono biblico è il per-dono che fa risorgere, non è un “dimenticare” il passato, ma un ricordare doloroso per ricostruire un nuovo futuro. È perdono teso alla riconciliazione.

Ogni famiglia, ogni fraternità, ogni comunità, sa quali sono le azioni concrete necessarie, ma senza questi atti la riconciliazione non c’è, o è troppo fragile. I rapporti sono realtà “incarnate”, non sono solo sentimenti o buone intenzioni. I nostri rapporti sono dei “terzi” che stanno di fronte a noi, sono vivi con noi e come noi. Come i nostri figli, prendono le nostre “carni”, e quando un rapporto è negato o tradito sono le sue carni che vengono ferite, e sono questi carni che devono essere, con tempo e azioni, sanate. Questo è un grande insegnamento dell’umanesimo biblico, che ci svela la logica del sacramento della penitenza (non si capisce nessun “sacramento” senza avere un’idea “incarnata” dei rapporti e della vita), e che ha consentito che un giorno un rapporto (lo Spirito) potesse essere chiamato Persona.

Giuseppe ci suggerisce, poi, che molte riconciliazioni dopo grandi tradimenti non si sono dimostrate durature perché è mancato il tempo per un cammino di riconciliazione, anche perché questi cammini sono molto costosi per tutti (Giuseppe piange molte volte in questi capitoli). La virtù della fortezza è richiesta soprattutto a chi deve accettare il pentimento e perdonare, la grande tentazione è quella di fermarsi troppo presto (magari per pietà), e quindi non consentire al tempo di curare il rapporto arrivando fino in fondo alla ferita. Quando si sa resistere, i sentimenti di tutti si purificano (anche quelli di Giuseppe) – il perdono degli innocenti è tra le poche azioni che fanno commuovere il Cielo. Viviamo solo nella storia, e tutti gli eventi cruciali della vita hanno un bisogno essenziale del tempo: tornare a Caanan, nove mesi in un grembo, tre giorni in un sepolcro.

Infine, in questo affresco di riconciliazione un ruolo speciale lo occupa il denaro. In quel denaro messo nei sacchi e poi restituito, non c’è soltanto una prova di pentimento e di conversione. Giuseppe, infatti, rimette il denaro nei sacchi anche nel secondo viaggio (44,1), quando la prima prova “economica” dei fratelli era stata superata. Allora in quella restituzione di denaro si può nascondere un tesoro. Quando i fidanzati si lasciano (o si lasciavano) si restituiscono i doni, perché in mancanza dell’amore quegli oggetti da “beni” diventano dei “mali”. La storia di Giuseppe ci dice che quando si nega la fraternità si devono restituire anche i denari dei contratti.

I prezzi che paghiamo agli avvocati perché litighiamo per le eredità, o quelli per i conflitti nelle aziende famigliari, non producono alcun bene. Il denaro è sempre una cattiva moneta per sanare i rapporti, ma è pessima quando abbiamo a che fare con la fraternità. Senza un nuovo patto di riconciliazione, la nostra fame di grano nelle carestie della fraternità non può essere saziata da nessun contratto: «Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano» (Osea, 14,8).

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