Ricordo Pietro Scoppola, ordinario di contemporanea dal 1969, con cui ho studiato dall’inizio degli anni Settanta e la cui memoria mi è carissima, come vivesse il suo mestiere di storico senza confusione, ma senza separazione dall’impegno politico e dalle battaglie culturali. Non per tutti era così: un caso noto è quello di Renzo De Felice, la cui ricostruzione storica del fascismo si sviluppava senza prossimità politica, ma ha avuto un’importanza grande sulla cultura politica. La storia contemporanea contribuiva alla cultura politica, vitale in un tempo in cui non esistevano partiti personali e si studiava il caso dell’Uomo Qualunque come un’eccezione. Ma com’era possibile una ricerca storica non strumentale? Ernest Renan ne L’avenir de la science scrive che era suo intento promuovere una scienza esatta dell’uomo. La Storia Contemporanea non si colloca come un anello debole tra l’attualità politico-giornalistica e la scienza? Non è troppo coinvolta con il presente? Un grande storico polacco, Bronislaw Geremek (anche un militante di Solidarnosc e ministro degli Esteri del suo Paese liberato dal comunismo sovietico) ha scritto: «la storia è un misto di scienza e di poesia» e «non si fa opera di storico se all’approccio scientifico non si aggiunge un approccio poetico». Ne sono convinto. Duby ha sottolineato due fasi del lavoro storico: la rigorosa ricerca documentaria, poi trascesa per fare opera letteraria. La narrazione è qualcosa di ulteriore, complessa per il contemporaneista, particolarmente vicino al suo oggetto di ricerca. Scoppola ricordava sempre che non si fa storia se non si sentono domande pressanti dentro di sé. Ma non la si scrive senza una narrazione capace di poesia, per dirla con Geremek. Così si colloca come grande branca dell’umanesimo contemporaneo.
Eppure, in Italia, a una stagione in cui la storia contemporanea, quella dei partiti politici, era sollecitata, succede un’altra stagione in cui questo tipo di storia, se non perde il suo valore, deve ridimensionare le ambizioni. Il grande spartiacque è l’89, non solo perché pochi anni dopo si consuma la Repubblica dei partiti, con la scomparsa di alcuni di essi, o il distacco di altri dalle proprie radici. Per i giochi della storia, l’89 avviene due secoli esatti dopo la Rivoluzione del 1789 (quasi l’origine del mondo europeo contemporaneo). Quell’89 avviene in modo tanto diverso dalla Rivoluzione francese, incruento, come fatto di società civile – potremmo dire – contro l’idea giacobina di rivoluzione e di Stato. Con l’89, l’orizzonte si allarga (è la globalizzazione); ma anche si perde il senso del futuro promesso da raggiungere, l’utopia del progresso o del cambiamento che aveva mosso tanta parte della storia europea. La globalizzazione, con l’emersione di un mondo di valori legato al mercato e all’economia, erode la cultura umanistica. Nel 1992 Francis Fukuyama scrive di fine della storia, ma anche dell’uomo: la globalizzazione avrebbe portato a un avvenire di democrazia e benessere. Il mondo globale non è concentrato sul destino di una nazione, di una classe, di un partito: utopie terribili ma mobilitanti, speranze, senso della linearità della storia, progresso… sono idee che impallidiscono, di fronte a un prepotente presentismo. Quando non si guarda al futuro, si è meno interessati al passato. Così, in questi anni, ho provato, con l’insegnamento e la ricerca, a mostrare come la storia vive in noi e va portata alla luce, come non si capisce il presente senza storia, quasi la storia fosse un idioma, come l’inglese, necessario per viaggiare nel mondo. Sono infatti convinto che la storia fa leggere in profondità il presente al di là dello sguardo tipico dei media. Così altre dimensioni, come le religioni o le civiltà, acquistano valore per capire il presente. La storia, quella contemporanea, aperta alle dimensioni globali, è oggi meno popolare di ieri, ma più necessaria oggi, per realizzare quella conoscenza del presente, che ci sfugge, quell’umanesimo che è nostro patrimonio.