Idee. «Prova» o «tentazione»? il Padre nostro «tradotto» da Simone Weil

Esce in Francia il commento della pensatrice di origine ebree: la sua intuizione del testo greco anticipa il dibattito sulla nuova traduzione

Un ritratto di Simone Weil

Un ritratto di Simone Weil

In una delle recenti Udienze del mercoledì, papa Francesco ha ricordato come il Padre Nostro «non è una delle tante preghiere cristiane, ma la preghiera dei figli di Dio», che «fa risuonare in noi quei medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù». E ha aggiunto: «Mentre ci apre il cuore a Dio, il Padre Nostro ci dispone anche all’amore fraterno». Qualche mese fa sempre il Papa, intervistato da don Marco Pozza su Tv2000, aveva poi invocato una nuova traduzione per il penultimo versetto, che in Italia durante la Messa suona ancora «Non ci indurre in tentazione» ma che non rispecchia il vero senso delle parole di Gesù. Ha osservato Francesco: «Non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito».

In effetti nelle chiese francesi dal dicembre scorso, invece del precedente «Et ne nous soumets pas à la tentation» si recita «Et ne nous laisse pas entrer en tentation».

Ma anche in Italia diversi anni fa fu proposto da parte dei vescovi di cambiare da «non indurci in tentazione» a «non abbandonarci alla tentazione», una scelta recepita nella nuova traduzione della Bibbia e nel Lezionario, ma non ancora pervenuta nelle celebrazioni liturgiche, anche se largamente praticata in diverse parrocchie, perché in attesa del via libera vaticano.

Visto il dibattito in corso, viene più che mai opportuna la pubblicazione di un libretto di Simone Weil, Le Notre Père, appena uscito in Francia per le edizioni Bayard (pagine 78, euro 13,90). La pensatrice francese, oltre a commentare la preghiera, provvide lei stessa a una traduzione e, per quanto riguarda l’ultima domanda, fece questa ipotesi: «Et ne nous jette pas dans l’épreuve» (E non gettarci nella prova).

Un tentativo, il suo, niente affatto maldestro, data la sua conoscenza perfetta della lingua greca. È noto che Simone da un certo punto in poi della sua vita recitava quotidianamente il Padre Nostro in greco. Lo spiega lei stessa in una lettera inviata pochi mesi prima della sua morte, nel 1942, al domenicano Joseph-Marie Perrin: «L’estate scorsa, studiando il greco con Thibon, ripetevamo parola per parola il Pater in greco e ci siamo ripromessi di impararlo a memoria. Da allora, mi sono imposta come unica pratica di recitarlo una volta ogni mattina, con un’attenzione assoluta».

Dunque è a partire dall’estate del 1941, mentre si trova nelle campagne di Saint-Marcel d’Ardèche, ospite del filosofo e contadino Gustave Thibon, che la preghiera comincia a rivestire un ruolo fondamentale nell’esistenza della Weil. Lasciata Parigi con i suoi genitori nel giugno 1940, alla vigilia dell’ingresso dei nazisti nella capitale, giunge a Marsiglia verso metà settembre. Qui fa amicizia con padre Perrin, molto attivo nella Resistenza, con il quale instaura un dialogo a tutto campo sul cristianesimo. Poi Perrin la presenta a Thibon, che l’assume come lavoratrice agricola nella sua fattoria.

Per la filosofa, che già aveva lavorato come operaia alla Renault, sono forse gli anni più felici, trascorsi fra la vendemmia, la meditazione e la scrittura.

Il suo commento al Padre Nostro è del maggio 1942: due mesi dopo sarebbe volata a New York dove avrebbe conosciuto un altro religioso, padre Marie-Alain Couturier. Nel 1943 il ritorno in Europa, precisamente a Londra, per mettersi al servizio di France-libre. Lì avrebbe trovato la morte il 24 agosto in un sanatorio a causa della tubercolosi.

Il libretto di Simone Weil, edito nel 1950 come nota a margine della corrispondenza con padre Perrin (in Italia uscito prima da Rusconi poi da Adelphi col titolo Attesa di Dio), è una vera e propria meditazione dei versetti della preghiera così come appaiono nel Vangelo di Luca e merita davvero una pubblicazione a sé stante. Nelle sue considerazioni, riemerge come detto il suo grande amore per la civiltà greca, a suo dire l’unica assieme a quella cristiana ad aver dimostrato una compassione verso i deboli. Assai diverso il suo giudizio sull’impero romano, ritenuto il primo sistema totalitario della Storia, tant’è vero che lo paragona al Terzo Reich, che in quegli anni aveva sottomesso quasi tutta l’Europa.

Di qui la sua scelta di recitare il Pater in greco e non in latino. Come scrive François Dupuigrenet Desroussilles nella prefazione, «la preghiera di Simone Weil, nel 1942, non era quella di una cattolica perché la Chiesa non le sembrava all’altezza del compito richiesto da un’epoca tragica».

Il Padre Nostro in catalano nella Sagrada Familia

Il Padre Nostro in catalano nella Sagrada Familia

A suo parere, i cristiani avrebbero dovuto abbandonare l’appartenenza a un’istituzione terrestre per concepire la Chiesa come «un ricettacolo universale»: la sua preghiera è quella di una Chiesa invisibile e non confessionale. La filosofa aveva accolto la certezza dell’esistenza di Dio durante un suo viaggio in Portogallo nel 1935, certezza poi confermata ad Assisi, dove nella basilica di Santa Maria degli Angeli si era inginocchiata per la prima volta. Nel 1938 poi, nell’abbazia di Solesmes, era stata «rapita da Gesù».

Ma fino alla morte sarebbe rimasta sulla soglia della fede. Il Padre Nostro commentato da Simone Weil è una sorta di fenomenologia del desiderio umano. Così la domanda di santificazione del nome di Dio va interpretata come una chiave per sfuggire dalla prigione di sé alla luce della mediazione di Cristo, mentre la seconda domanda («venga il tuo regno») lascia trasparire un grido di tutto l’essere, paragonabile al grido di chi sta morendo di sete.

Desiderare poi che la volontà di Dio sia compiuta per lei non corrisponde assolutamente a un sentimento di rassegnazione, ma mobilita l’energia dell’essere umano che vuole andare oltre se stesso. Ancora, la Weil esclude di chiedere solo il pane di quaggiù, perché ciò significa restare intrappolati nella dittatura della necessità: per questo la preghiera si conclude chiedendo di poter sfuggire alla prova (come quella che dovette sopportare Giobbe) e con l’umile supplica di essere protetti dal male che regna e domina il mondo.

Mentre recitava il Padre Nostro durante il lavoro dei campi, Simone Weil esprimeva tutta l’audacia di cui era capace e il suo sentimento di condivisione del dolore degli uomini che soffrivano per l’orrore del nazismo. «Questa preghiera – scrive riassumendo il senso della sua riflessione – contiene tutte le domande possibili. Lo Spirito soffia dove vuole, non si può che invocarlo. Rivolgergli un appello e un grido».

da Avvenire