Idee. Le chiese e i quartieri: quelle parrocchie fanno centro

I centri parrocchiali, con le sale per la catechesi e ricreative, le aree per il gioco, gli ambienti per le attività cartitative, sono i luoghi dove abita quotidianamente la comunità. Da decenni ormai, quando si costruisce una nuova chiesa, si richiede all’architetto non più soltanto di progettare il luogo di culto ma anche gli spazi per la parrocchia. Eppure se attorno all’aula liturgica il dibattito, l’attenzione e la cura sono sempre stati sostenuti, questi spazi, nonostante la loro importanza nella vita della comunità ecclesiale, cadono di norma in un cono d’ombra. Per questo è particolarmente interessante l’idea di “Thema”, rivista semestrale di architettura, arte sacra e beni culturali ecclesiastici del Centro Studi di Architettura e Liturgia di Pescara, di dedicare il suo nuovo numero a Costruire la comunità: l’architettura dei centri parrocchiali, lanciando un appello per i contributi (scadenza il 9 ottobre): dal paesaggio urbano al rapporto tra complesso parrocchiale e comunità, fino alla presenza di questa nella città contemporanea.

«Sono due i motivi per cui abbiamo deciso di puntare l’attenzione su questo tema» spiega Andrea Longhi, membro del comitato scientifico della rivista, professore associato di Storia dell’architettura al Politecnico di Torino: «Il primo è che sembra mancare una riflessione su in quali termini gli edifici a uso sociale, caritativo, educativo debbano avere una specificità rispetto a funzioni analoghe ospitate da società sportive o centri di aggregazione giovanile». Il secondo sta nel fatto che «il complesso parrocchiale porta a ragionare maggiormente sulla città attraverso le relazioni che questo instaura con un contesto più sociale più ampi: forme diverse di appartenenza alla Chiesa, altre religioni e multiculturalità sono temi che non toccano il luogo di culto cristiano in quanto tale ma interessano e coinvolgono ogni giorno le comunità cristiane propri attraverso questi spazi».

Se dai contributi proposti si attende la possibilità di tracciare una mappatura di esperienze variegate, ci sono già però ipotesi di lavoro: «Dalle mie ricerche mi sembra di individuare due modelli astratti a cui ricondurre esperienze mai univoche. Uno vede il complesso parrocchiale quasi come un’isola di salvataggio, uno spazio di rifugio rispetto all’aggressività della città secolarizzata. L’altro lo interpreta come un “pezzo di città” a tutti gli effetti, condividendone le sfide, le provocazioni, le contraddizioni». Rispetto al tema dell’identificabilità delle nuove chiese rispetto al tessuto urbano, il centro parrocchiale spesso diventa il primo elemento visibile rispetto al quartiere: «E questo accade soprattutto nei complessi parrocchiali nei quartieri periferici o di nuova espansione. Qui il primo problema progettuale è la scelta su quale volto rivolgere alla città: la facciata o il sagrato o opere di tipo sociale. Sono scelte che spesso la comunità fa in modo spontaneo, ma che vengono tradotte in architettura e hanno un forte valore comunicativo: l’architettura comunica cosa è la Chiesa, e non sempre se ne è consapevoli».

L’architetto Antonio Monestiroli, importante progettista e docente tra Milano e Venezia, si è confrontato con il tema tra il 2005 e il 2010 nella chiesa di San Carlo Borromeo a Fonte Laurentina, nell’ambito di quattro nuovi progetti per il piano delle “50 chiese per Roma 2000”. «È un fatto che anche nella committenza ci sia una minore coscienza di quanto possa contare la qualità degli spazi dei centri parrocchiali, considerati solo un fatto funzionale, mentre il problema espressivo viene concentrato nell’aula liturgica». Se sul complesso in generale e sulla chiesa i rapporti sono stati eccellenti, «all’interno del centro parrocchiale io avevo progettato un grande salone parrocchiale a doppia altezza, uno spazio importante, differenziato rispetto al resto del complesso, capace di creare una dimensione collettiva. Preferendo ragioni pratiche, mi è stato chiesto di suddividerlo in altezza per ricavare altre aule, riducendolo così a un salone qualsiasi».

Eppure secondo Monestiroli l’architettura può contribuire alla qualità della vita comunitaria: «Il centro parrocchiale è legato alla chiesa e ha una sua vita autonoma. È innanzitutto un luogo di aggregazione. Nel mio progetto sono partito dal fatto che in quell’area già i ragazzi si incontravano. Ci tenevo che questo rapporto con i ragazzi del quartiere fosse mantenuto. Io ho dato una grande importanza al sagrato, che è il punto di intersezione tra chiesa e città ma anche tra chiesa e centro parrocchiale. Tra i due infatti c’è una specie di corte aperta sul quartiere, luogo di ritrovo per i bambini si ritrovano. Alla Laurentina non c’è neppure una piazza, solo parcheggi. Per questo ho deciso di alzare il sagrato da terra con un grande ingresso pedonale e inaccessibile alle automobili se non attraverso un percorso secondario, utilizzabile in occasione di matrimoni e funerali. Sono partito dalla piazza: qui ci si ritrova per la preghiera, la formazione il gioco».

La sola preoccupazione funzionale (magari accompagnata a una scarsa cura degli ambienti) può avere conseguenze importanti: «Estetica e spiritualità devono essere le qualità di ogni spazio in cui l’uomo abita e vive» spiega Goffredo Boselli, liturgista e monaco di Bose: «C’è qualità estetica e spirituale là dove c’è qualità umana dello spazio. Questo significa che in un complesso parrocchiale le aule per la catechesi, gli ambienti per la socializzazione e le strutture per la carità devono essere anzitutto spazi vivibili e accoglienti. Non si può far catechesi, cioè annunciare la vita buona del Vangelo, in luoghi anonimi, sciatti, dove non c’è niente di bello, neppure il colore delle pareti. Il luogo della catechesi è in sé stesso catechesi, perché gli spazi sono linguaggi e per questo, lo si riconosca o meno, fanno parte dell’insegnamento trasmesso. Allo stesso modo chi bussa alla porta della Caritas parrocchiale non deve trovare solo persone generose pronte ad aiutarlo ma deve trovare anche un luogo ospitale dove potersi sentire accolto, riconosciuto, ascoltato. I poveri hanno bisogno di bellezza come del pane. Accoglierli in stanze arrangiate significa dire loro che non meritano altro. C’è un rapporto strettissimo tra carità e spazio. La più piccola e semplice stanza nella quale la parrocchia accoglie il povero è sacra come una chiesa».
In questi spazi si prega e si celebra anche la Messa, sebbene non siano una chiesa: «Nel cristianesimo è la comunità in preghiera che fa il luogo della preghiera. I primi cristiani hanno celebrato l’eucaristia nelle loro case e da allora la si può celebrare nella cattedrale di Chartres come nello Yankee Stadium di New York. Pertanto la riflessione sempre più necessaria non sarà tanto sulla “natura liturgica” degli spazi parrocchiali quanto sulla loro “natura ecclesiale”. Luoghi che dovrebbero in qualche modo essere contagiati dalla capacità dell’assemblea liturgica di crearsi il suo spazio proprio. Quando la comunità cristiana si riunisce in assemblea ha da se stessa un’innata capacità spaziale: crea spazio perché è essa stessa luogo di incontro, tra i credenti e Dio, tra i credenti tra di loro, tra i credenti e la città, tra i credenti e il paesaggio. La comunità in preghiera ha luogo perché dà luogo».

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