I sogni uccisi dalla quotidianità. L’ossessione di Marcel Proust nella «Recherche»

Ritratto di Duchessa di Guermantes (Figurino di Carlo Menucci)

Il ricordo di una nobile signora è per il narratore di Alla ricerca del tempo perduto «il primo abbozzo di un ritratto, il solo vero, che cogliesse il segreto della vita, il solo che fosse realmente la signora di Guermantes». Cogliere il segreto dell’esistenza è il cruccio e nello stesso tempo il progetto che fin dal 1909 Marcel Proust coltiva nella sua fragile figura di intellettuale un po’ nevrotico, vittima di malattie che per alcuni erano di natura nervosa, e un po’ snob. Ma nonostante lo snobismo, (che però lo scrittore trova già bell’e pronto nella società frequentata dalla famiglia), va assai oltre: inizia con Jean Santeuil, primo abbozzo dell’opera maggiore, scritto nel 1905 ma pubblicato dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1922, e passa lentamente nello sconfinato continente della Ricerca, che gli prenderà tutta la vita di segregato, votato al grande sacrificio nel tempio del dio Crònos, ossessione e spina che diverranno nel contempo genio e umana immortalità.

Perché è il tempo che assilla Proust, come stava assillando un pensatore che affosserà quel positivismo deterministico convinto che ogni cosa sia misurabile e segmentabile. Henri Bergson (1859-1941) — legato peraltro a Marcel da legami parentali, avendo sposato una sua cugina — in Materia e memoria aveva mostrato l’inconciliabilità tra il tempo degli scienziati, segmentabile e «irrigidito», e quello dell’uomo, colto dalla memoria involontaria: la sola che può intuire lo scorrere perenne dello slancio vitale in cui precipitano passato e presente in una soluzione sempre diversa e sempre oltre. Marcel va alle lezioni del filosofo, e come lui si interroga sul tempo: che senso ha una vita che — prima di Bergson — sembrava un insensato scorrere di minuti dall’inizio verso la fine? Che senso ha una corsa in cui le esperienze, le persone da noi tanto amate poi tramontano e apparentemente non lasciano alcuna traccia? La risposta sta proprio nella memoria involontaria, il recupero del senso attraverso improvvise illuminazioni che si accendono in noi alla vista di un tramonto o nel gustare il sapore di un biscotto inzuppato nel tè, o nel vedere un volto tra la folla.

Inutile tornare al Boi de Boulogne o a Balbec o Combray, per citare i luoghi reali — anche se talvolta travestiti nei nomi dell’opera — per tentare di rivivere di nuovo quella sensazione, o, peggio, per rivedere persone e posti mutati e irriconoscibili.

Proprio cento anni fa usciva il terzo dei sette volumi della RechercheI Guermantes, da cui abbiamo estratto quella citazione iniziale. Le seduzioni si susseguono nell’animo di Marcel: dopo Gilberte, Albertine, la cantante Berma, ora è il turno della duchessa di Guermantes, nobile famiglia che torna spesso nella Ricerca, simbolo inizialmente di mito intoccabile, visione preraffaellita, incanto mistico che lentamente mostra delle crepe. Quando? Esattamente al momento in cui, e questo è un altro cardine dell’intera opera, colui che spasima entra a contatto diretto con il centro dei suoi sogni. Non bisognerebbe mai tornare nei luoghi in cui si è stati felici, non si dovrebbe mai entrare in confidenza con l’oggetto dei sogni, perché la vicinanza, la quotidianità li uccidono, quei sogni: questa è una delle certezze dell’intero ciclo proustiano e anche dei Guermantes.

Una volta entrato nel loro salotto il narratore non può fare a meno di notare la meschinità di certi discorsi in cui vengono tirati in ballo storia nobiliare, amicizie, tradimenti, attualità. Molte pagine di questo volume sono ad esempio dedicate all’affare Dreyfus e alcune parole della tanto vagheggiata signora di Guermantes cadono come pietre nelle orecchie di chi aveva preso le parti dell’ufficiale ebreo al tempo del processo: «Che lettere idiote e retoriche scrive dalla sua isola!», è una delle perle dell’oggetto platonico di un amore fatto di sogni di finezza e misticismo. Anche questo mito cade e sarà dimenticato.

E allora che si chiude a fare Marcel nel suo studio a deperire sul suo libro, anzi, sui suoi sette libri? Per tentare di creare un’opera d’arte. Ma non solo e non tanto per la fama. Semplicemente perché è l’unico modo di consegnare alla memoria ciò che si è perduto. Salvare non solo il passato, ma anche quel suo ritorno nel nostro presente attraverso improvvise emozioni cui non sapremmo dare spiegazioni, e che in realtà sono l’eterno, ma imprevedibile, riaggallare di quello che pensavamo perduto dentro di noi. È questo il senso dell’arte, altro che inutilità, altro che snobismo, sembra dirci Marcel ancora oggi: ritrovare il senso della singola esistenza, sapere che le persone non se ne sono andate completamente, ma vivono nel nostro presente perché noi guardiamo un tramonto anche con i loro occhi, agiamo e pensiamo in virtù dei loro insegnamenti, e così farà chi verrà dopo di noi, o perché viene da noi, o perché ha fatto suo il dono dell’artista.

Un artista che, bisogna pur dirlo per onestà critica, nei Guermantes sembra lo faccia apposta a esibirsi in quello che i critici gli avevano rimproverato bocciando il primo libro: una lunghezza estenuante dei periodi, con subordinate e subordinate a parlare di pettegolezzi, pretese di nobiltà da parte di borghesi arricchiti, giudizi su chi è da poco uscito di scena, moralismi vari, croce e delizia dello scrittore. Tutto vero: a volte viene voglia di chiudere il libro, ma poi arrivano la parola, la frase, la notazione che da sole assolvono il mare di pagine che ci hanno tolto il sonno, e che hanno il potere di farci sobbalzare; il geniale snob, il raffinato salottiero riesce a cogliere il senso della vita, di tutta la vita, anche quella dei bassifondi: «Quasi tutte le case erano abitate da gente infelice. (…) altrove una madre lavoratrice, bastonata da un figlio ubriacone, cercava di nascondere la sua sofferenza agli occhi dei vicini. Almeno mezza umanità piangeva».

Come gli aveva insegnato Ruskinhen, da Proust molto amato, nella memoria c’è spazio per i diseredati: snob sì, ma non indifferente al dolore altrui.

di Marco Testi

Osservatore Romano