I sacerdoti rispondono alla lettera di Papa Francesco

L’Osservatore Romano

Nella memoria di san Pio X. È con grande piacere che oggi pubblichiamo cinque testi, sotto forma di lettera o di intervista, scritti da altrettanti sacerdoti in risposta alla lettera che il Santo Padre ha inviato a tutti i presbiteri del mondo lo scorso 4 agosto, in occasione della festa del Santo Curato d’Ars. E mi piace sottolineare questa data, 21 agosto, in cui la Chiesa celebra la festa di un altro grande santo, Giuseppe Sarto, eletto Sommo Pontefice nel 1903 con il nome di Pio X.
Papa Sarto fu innanzitutto un sacerdote, anzi un parroco di campagna, svolgendo il suo ministero nella provincia di Treviso dove era nato nel 1835, con particolare attenzione agli ultimi e ai poveri. Un umile “curato di campagna”, per usare l’espressione che dà il titolo al famoso romanzo di Bernanos citato da Papa Francesco nella lettera del 4 agosto. Proprio quell’esperienza di pastore lo spinse, una volta diventato Pontefice, verso alcune significative riforme tra cui ricordiamo il riordinamento delle parrocchie romane, l’istituzione di seminari regionali, in particolare nell’Italia centro-meridionale, volti soprattutto ad una più efficace formazione del clero e poi forse la riforma più famosa di questo Pontefice riformatore, quella del Catechismo. Alla luce di questo Papa santo (quarant’anni dopo la sua morte, avvenuta il 20 agosto 1914, fu canonizzato da Pio XII e per lunghi anni fu l’unico Papa santo del ’900) è bello leggere le risposte che arrivano dal popolo dei ministri di Dio alla paterna lettera che Papa Francesco ha inteso recapitare a ciascuno degli oltre 400.000 sacerdoti sparsi in tutto il mondo. Oggi pubblichiamo questi cinque testi, in attesa di riceverne altri in futuro. (A. M.)
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Pensieri di un giovane parroco
di ANDREA MONDA
«Ieri sera tornando a casa stavo ripensando alla lettera che il giorno prima il Papa aveva spedito a me e a tutti i sacerdoti del mondo; quando entro in salotto trovo mia madre e mia nonna davanti alla televisione che vedevano un film e sento questa battuta di uno dei personaggi: “Una lettera è bella perché chiede tempo a chi la scrive e a chi la legge”. Una piccola grande verità: chi scrive una lettera ci pensa bene, e anche chi la legge fa lo stesso».
Don Tiziano Cantisani parroco qui a Maratea, la bella cittadina lucana in cui villeggio, ci tiene a raccontarmi questo episodio, forse per guadagnare tempo. «Nelle nostre relazioni odierne siamo abituati ad una velocità di risposta che azzera il tempo, la distanza, anche la giusta distanza per il pensiero. Invece una lettera scritta recupera questo tempo, e la lettera del Papa fa questo effetto, direi che lo vuole, lo richiede. Ed io vorrei avere il tempo di leggerla, studiarla, “ruminarla”».
E invece, è la terribile legge del giornalismo, non consento al giovane sacerdote (classe 1984) di “ruminare” e gli chiedo una sensazione “a caldo”, cosa ha provato leggendo la lettera del Papa.
«Paterno, l’ho trovato un testo paterno, che è il contrario di paternalista. Cioè non è un testo che “cala dall’alto”, ammonitorio, ma è scritto da una persona che ha condiviso e condivide ancora la medesima condizione che vivono i destinatari della lettera, noi presbiteri. È un discorso da padre, quello che fa il Papa, chiaro e preciso, che vuole indirizzare verso una vita spesa per il servizio a Dio e al popolo di Dio, ma partendo da questa condivisione».
Anche sui contenuti don Tiziano è stato colpito dalla lettera che prevede a fianco ad alcuni temi “tipici” del Papa come la gioia, il posto del pastore in mezzo al popolo, i pericoli insiti nella missione, anche qualche elemento di novità. Ad esempio il dolore, che è uno dei quattro grandi temi su cui ruota tutto il documento. «Un discorso così completo su questo tema non lo ricordo, forse in qualche omelia aveva già parlato delle nostre fragilità e nella Evangelii gaudium aveva parlato delle tentazioni e dei rischi ma ora ha centrato il punto in modo diretto, offrendo una nuova chiave di lettura: il dolore che arriva per determinate occasioni non deve chiudersi nella desolazione ma aprirsi alla forza dello Spirito Santo. Noi spesso il dolore lo attribuiamo a qualcosa di diverso ma non alle nostre fragilità; e il Papa ha ragione: capita di sentirsi inadempienti e sovraccaricati, ma non sempre si affronta questa condizione come occasione che può diventate punto di incontro con la grazia del Signore. Mi ha molto colpito il passaggio in cui cita Giobbe parlando della nostra missione “non come teoria o conoscenza intellettuale o morale di ciò che dovrebbe essere, bensì come uomini che immersi nel dolore sono stati trasformati e trasfigurati dal Signore, e come Giobbe arrivano ad esclamare: ‘Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto’ (42,5). Senza questa esperienza fondante, tutti i nostri sforzi ci porteranno sulla via della frustrazione e del disincanto”».
Chiedo a don Tiziano se queste intense parole del Papa hanno un riscontro concreto nella vita quotidiana di un giovane prete e la risposta non si lascia attendere: «Senz’altro, per questo dicevo che sembra scritta da un padre ma che è al tempo stesso fratello perché conosce e vive la nostra esperienza. Ad esempio quando il Papa parla della “maschera” che spesso si assume per non lasciarsi coinvolgere, questa è una tentazione verissima, il voler prendere le distanze. Lo vedo quando sperimento, in me e negli altri fratelli, la cosiddetta “sindrome del burn-out”, uno dei segnali è il prendere le distanze, assumere una freddezza di fronte al dolore delle persone che incontriamo, un atteggiamento che sembra saggio ma in realtà è cinico, disumanizzante. Ci diciamo mentalmente: “vabbè, facciamo questo altro funerale”, così come una pratica burocratica, e questo ci procura un finto sollievo».
Proviamo con don Tiziano a rileggere il testo attraverso i quattro grandi temi, dopo il dolore, la gratitudine. «Anche qui mi ha molto colpito il Papa che ci ringrazia per la nostra scelta, questa scelta controcorrente contro la tendenza “gassosa” della società e, ovviamente, mi ha fatto molto piacere. In precedenza più volte mi è capitato di vivere strane situazioni per cui il Papa aveva detto qualcosa, o meglio i mass media gli facevano dire qualcosa e in parrocchia succedevano cose strane: fedeli che ti rimproveravano facendo seguito ai rimproveri del Papa o ti incalzavano su temi come la comunione ai divorziati e così via. Invece qui ora c’è un Papa che ringrazia. In una società dove tutto è dovuto, il fatto che ci si fermi a ringraziare è inusuale. Qualche anno fa sono andato a prestare servizio presso la comunità per i tossicodipendenti “Emmauel” fondata dal padre gesuita Mario Marafioti. All’inizio, dopo essermi presentato, sono stato ringraziato per il semplice fatto di essere lì. Il fatto mi ha colpito e mi ha colpito il fatto che mi ha colpito, come se non ci fossi più abituato nemmeno io».
Terzo punto, il coraggio. «Leggendo la lettera del Papa ho riflettuto sul fatto che non si deve aver coraggio, quanto piuttosto confidare in qualcuno che ci incoraggia. Riflettendo sulla mia vita posso dire che non ho avuto veramente coraggio, la mia scelta è stata frutto di un processo graduale, direi quasi una lucida follia, non il frutto di un coraggio “tutto mio”. Non lo si ha, il coraggio, di per sé, ma nasce da una presenza che dà coraggio. E il Papa lo spiega bene quando parla del rischio di una “tendenza prometeica”, il coraggio che diventa una tentazione, un atteggiamento di superbia, non a caso cita san Paolo che riconosce di essere forte nella debolezza, che l’unica sua forza è Cristo che vive in lui».
Infine la lode. «Non sempre si è capaci di lodare Dio; certamente nei momenti belli è facile, ma poi, nei momenti difficili? Eppure il Vangelo è chiaro su questo punto: beati voi quando vi insulteranno… Penso che questi quattro punti siano legati da un nodo cruciale espresso nella riflessione sul dolore che si apre alla gioia e alla speranza della resurrezione. Mi piace questo rovesciamento dei significati, questa visione paradossale, sono grato al Papa per questo testo».
Ci stiamo per salutare con don Tiziano ma lo vedo ancora intento a “ruminare” la lettera, vuole aggiungere qualcosa: «Mi colpisce questo insistere sul popolo di Dio. Il Papa ci sta dicendo, a me e a ogni sacerdote, che non siamo mai soli e che dobbiamo mantenere saldi i legami con Gesù da una parte e con il popolo dall’altra. In questo la preghiera è un elemento fondamentale. Non solo, il Papa ci sta dicendo che dobbiamo fidarci del popolo, perché il popolo ha fiuto. Questo è un piccolo rovesciamento. Per troppo tempo il popolo è stato abituato al fatto che doveva seguire il pastore, ora i termini sono, in parte, rovesciati; deve quindi crescere una nuova mentalità, un nuovo modo di sentirsi Chiesa. Ci vuole tempo! Ho la sensazione che il concilio Vaticano II deve ancora dare i frutti, un po’ tutto questo è normale, penso che così è stato per tutti i grandi concilii in passato. Oggi il Vaticano II è ancora acerbo e ad alcuni può sembrare una minaccia; il concetto di corresponsabilità, ad esempio, mette in crisi l’idea dell’autoritarismo. Questo è già nel Vangelo: “Non sia così tra voi, ma il più grande sia l’ultimo e si metta a servizio…”. Penso sempre al tema del dolore: la missione della chiesa, lo dice bene l’incipit della Gaudium et spes, è proprio nel condividere le gioie, le speranze ma anche le angosce e i dolori degli uomini. Non si capisce questa lettera senza conoscere il concilio».
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Tredici anni di carcere non hanno spento la gioia della missione
di DOMINIC NGO QUANG TUYEN*
Nella lettera, il Papa parla come amico, maestro e padre. Come amico, egli si esprime con le parole più sincere e afferma che Gesù vuole che i suoi discepoli sappiano di essere suoi amici («non vi chiamo più servi… vi ho chiamato amici»).
Come maestro offre ai suoi sacerdoti una guida per superare le difficoltà che lui stesso ha vissuto e racconta le esperienze di altre persone che ha incontrato nella sua vita apostolica.
Come padre dà conforto ai sacerdoti che stanno attraversando difficoltà e prove. Egli manifesta la sua gioia e incoraggia i sacerdoti a svolgere la loro missione e anche a prolungare tale gioia fino ad età avanzata.
Mi chiedo come rispondere alla lettera del Papa. Ed ecco la mia risposta personale.
Penso che sia una lettera rivolta a me. Voglio bene al Papa e lo ringrazio per questo.
Chiedo al Papa di pregare per me, sacerdote settantunenne, che tra le altre prove ha trascorso tredici anni in carcere, ha subito sette interventi al cuore… e ora svolge la propria missione evangelizzatrice come parroco e responsabile di diverse missioni, felice di adempiere alla responsabilità affidatagli dalla Conferenza dei vescovi cattolici del Vietnam per l’evangelizzazione del suo amato paese.
Sono abituato a leggere le notizie e i documenti del Papa, seguendo da vicino i passi che compie nel suo cammino apostolico a imitazione di Gesù Cristo e manifestati attraverso le parole, lo stile di vita e specialmente la gioia nel suo ministero.
Desidero dire al Papa: «Le voglio bene, Santo Padre. Come una tra le tante testimonianze, ho tradotto i suoi importanti insegnamenti e documenti in lingua vietnamita e li ho trasmessi al mio amato popolo vietnamita. Santo Padre, preghiamo l’uno per l’altro».
* Sacerdote del Vietnam
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Un soffio di aria fresca
di JUAN MARDOQUEO AJ LUIS*
È bellissimo sapere che il vicario di Cristo, il Papa, ci capisce, sa riconoscere che in noi preti, nonostante le nostre debolezze e i nostri limiti, Dio fa grande cose. Anche se portiamo questo tesoro in vasi di creta, sappiamo che con questa creta Egli fa grandi cose per l’umanità: è lui che ci sostiene, è lui che sta al nostro fianco. Anche se ci sono peccati che hanno provocato grandi dolori alla Chiesa con gli abusi sessuali commessi da alcuni preti, questa crisi è un tempo di purificazione per la Sposa di Cristo perché Lui la vuole santa e Immacolata. E il cammino che il Papa ci propone con la conversione, la trasparenza e la sincerità susciterà grandi frutti di santità nei preti di tutto il mondo. Le sue parole ci aprono alla speranza, a guardare la nostra storia con gli occhi di Dio, ad avere la convinzione che il Signore è colui che guida la sua Chiesa.
Con le sue parole di gratitudine il Papa ci fa vedere la grandezza del sacerdozio nella piccolezza dell’essere umano. Siamo nelle mani del Signore ed è Lui che scrive la storia della Chiesa, anche con i nostri limiti. Ma questi nostri peccati sono motivo per incoraggiarci, per alzarci e prendere la via della santità, persa tante volte perché abbiamo messo i nostri occhi nella mondanità della vita.
Il presbiterio è il posto dove siamo chiamati a mostrare al mondo il volto della comunione e della fraternità e solo da questa comunione possiamo prendere lo slancio per la missione. Il Papa ci ricorda che la missione divina è nata della comunione trinitaria e che noi preti siamo chiamati a testimoniare questa comunione a partire dai nostri rapporti sacerdotali e dalla comunione col vescovo diocesano e con i nostri fratelli presbiteri. Così possiamo poi offrire nella missione la luce del Vangelo, che illumina ogni persona. Questa missione è svolta tante volte in parrocchie estese, molto popolate e povere economicamente, ma con grandi ricchezze umane che il mondo occidentale ha perso. Noi preti ci impegniamo, affrontando anche la stanchezza, per offrire la nostra sensibilità di pastori a tante pecore che, in America latina, sperimentano la croce e il dolore per la povertà, la discriminazione, l’esclusione nelle periferie fisiche ed esistenziali della vita. La vicinanza dei nostri pastori ci incoraggia ad andare avanti, a non cedere alla dolcezza dolciastra e a respingere la desolazione che mai sarà compagna sulla via di un pastore con il cuore di Cristo Buon Pastore.
La vicinanza del vescovo, la fraternità presbiterale, la comunione nella preghiera perseverante e la vicinanza alla Madonna, nostra Madre, ci farà offrire la speranza più bella che il Vangelo vuole offrire al mondo.
Nelle parrocchie di periferia le persone hanno molti motivi per avere una vita segnata dall’accidia, dalla disperazione e dalla tristezza. Siamo testimoni di tanti nostri fedeli colpiti dalla violenza, dalla povertà, dall’esclusione sociale di diverso genere, dalle poche opportunità che offrono Stati segnati dalla corruzione nell’amministrazione pubblica. In mezzo a questa realtà, con la sua lettera il Papa ci incoraggia a non dimenticare il dolore dei nostri popoli, ad avere la sensibilità del cuore per essere vicini a coloro che soffrono, a mostrare il volto del Padre, a far sentire che nella mano del Signore nessuno è escluso, a far sentire la misericordia e la compassione della Chiesa. Ma abbiamo bisogno di avere un cuore di pastore e di vicinanza verso coloro che soffrono. Le parole del Papa sono un soffio d’aria fresca che incoraggia il nostro cuore di pastore.
*Presbitero della diocesi di Suchitepèquez-Retalhuleu, in Guatemala
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Alle origini della vocazione
di SANTOSH KUMAR DIGAL*
La lettera di Papa Francesco è giunta “puntuale” per i sacerdoti in tutto il mondo. È giunta come grande sorgente di fede e amore fraterno, colma di speranza e di incoraggiamento.
A ragione egli dice ai sacerdoti: spesso «“lasciate tutto” per impegnarvi nella vita quotidiana delle vostre comunità». Nei miei diciannove anni di sacerdozio ho sentito, sperimentato e visto come sacerdoti in luoghi o regioni lontane e inaccessibili s’impegnano nei vari lavori pastorali, predicando la Parola di Dio in situazioni diverse e portando speranza alla gente con amore, spirito di servizio e impegno, rafforzando le comunità e sostenendo la causa dei poveri, e promuovono i diritti umani, la dignità umana e la giustizia sociale nonostante numerose difficoltà e sfide.
A spingerli a fare ciò che fanno è l’amore di Gesù e l’amore delle persone che hanno bisogno della presenza, del sostegno e della partecipazione dei sacerdoti nelle loro lotte quotidiane. Lo fanno senza tanto clamore e sopportano tutto con pazienza, impegno e coraggio.
Il Papa ha ragione quando dice che ci sono sacerdoti che soffrono e sopportano grande dolore per errori che non hanno commesso. A volte i superiori dei sacerdoti, i vescovi e le persone che occupano ruoli di autorità, comprendono i sacerdoti e li sostengono nelle loro difficoltà. Ci sono però casi in cui non li comprendono, e i sacerdoti continuano comunque a perseverare nella loro missione e a essere generosi nel loro apostolato. La grazia di Dio sostiene i sacerdoti «che con fedeltà e generosità dedicano la loro vita al servizio degli altri».
Ho sperimentato personalmente che, in tempi di avversità e difficoltà nella vita personale o nel lavoro pastorale, spesso ho ricordato i “bei momenti” della mia prima vocazione al sacerdozio, che hanno suscitato il mio orientamento di vita a seguire Gesù, malgrado i miei limiti; e ricordo con affetto le persone che mi hanno influenzato e hanno camminato con me nel mio percorso di formazione in seminario e negli impegni pastorali, specialmente i miei genitori e familiari, i formatori del seminario, i vescovi, gli amici sacerdoti, i laici di diverse origini sociali. Il loro amore e il loro affetto hanno arricchito la mia vita e il mio impegno sacerdotale a dedicarmi a Gesù e alla sua missione.
La lettera del Papa ricorda a tutti i presbiteri di rinnovare la vita sacerdotale e il lavoro missionario per amore del Vangelo e di essere al servizio degli altri con fedeltà e cuore generoso, portando speranza e amore al mondo lacerato nel quale oggi viviamo. Le sfide sociopolitiche ed economiche che attualmente dobbiamo affrontare sono sempre più grandi. In mezzo a tali scenari, il Santo Padre incoraggia fraternamente a proseguire nella vita pastorale per amore di Gesù con calore e mente forte.
Ringrazio Papa Francesco per questa lettera importante e puntuale inviata ai presbiteri. L’apprezzo davvero tanto. Gli viene dal cuore e dimostra il suo grande amore per i sacerdoti. Le sue parole ci portano speranza, amore e affetto e ci ricordano di rimanere saldi nel nostro lavoro pastorale e nella nostra missione al Signore.
*Prete dell’arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar nello Stato di Odisha (Orissa), in India
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Con la fatica del pescatore
Nella lettera indirizzata ai sacerdoti il 4 agosto scorso, Papa Francesco rivolge parole di gratitudine, affetto e incoraggiamento ai preti, per l’offerta generosa della loro vita e l’impegno silenzioso e nascosto, non sempre facile, che portano avanti. Ne parla in questa intervista don Andrea Simone, vicario parrocchiale della cattedrale di Fabriano.
Cosa hanno suscitato queste parole nel cuore di un parroco?
Quando ho appreso la notizia che Papa Francesco ha scritto una lettera ai sacerdoti in occasione del 160° anniversario della morte del santo Curato d’Ars, non lo nascondo, mi sono subito precipitato sul web per saperne di più, ma le notizie lette o ascoltate non mi hanno subito entusiasmato, non le ritenevo così affascinanti da spingermi a leggerle. Ma approfittando del periodo estivo mi sono stampato il testo e ho letto. Francamente sono rimasto affascinato dai 4 capitoli (dolore, gratitudine, coraggio e lode) che formano la spina dorsale del testo. Ho inteso leggere questa lettera del Papa non impersonalmente ai sacerdoti, ma a me, proprio a me vicario parrocchiale della cattedrale di Fabriano, una diocesi diciamo “in periferia” ma che in sintesi racchiude tutte le caratteristiche di una metropoli. L’amorevolezza, l’incoraggiamento, la comprensione che il Papa ha per i sacerdoti ha subito dissipato in me quell’oscurantismo che una società aliena dai valori del Vangelo tenta di gettare sul lavoro dei sacerdoti silenti ed operosi.
Alle parole di gratitudine, Papa Francesco aggiunge il desiderio di rinnovare il coraggio dei sacerdoti nel vivere la missione talvolta in situazioni difficili e in momenti di stanchezza e di amarezza del cuore. Quanto è importante sentirsi accompagnati dai pastori — dai vescovi e dal Papa — e quanto è preziosa la fraternità sacerdotale per non perdere il coraggio?
L’immagine del sacerdote come buon pastore che ieraticamente porta sulla spalla quell’unica pecora smarrita dal suo ovile a volte mi rende più che orgoglioso della mia scelta, ma non è un’immagine che sento incarnata nel tessuto contemporaneo; piuttosto vedo il sacerdote come quel pescatore ricurvo sulla sua barca, stanco della notte di pesca, bagnato e roso dalla salsedine, nel tirare nella sua barca una pesante rete dove troverà di tutto, ma proprio tutto, tranne forse quel che s’aspettava di trovare. Il Papa ci ha dimostrato non solo di essere capace non solo di capire la fatica della pesca e anche gli insuccessi accidentali del momento, ma anche una volontà desiderosa di esserti vicino, accanto, e dirti grazie per quanto hai svolto e stai svolgendo nel tuo ministero. La società pensa che il nostro sacerdozio sia un lavoro poiché riceviamo un compenso economico, ma non sa che se non fosse una vocazione, ovvero un tendere verso l’Alto e l’altro, nessun prete resisterebbe nel suo ministero. Sapere che il successore di Pietro è “pescatore” come Lui, conosce bene l’arte della pesca con i suoi sacrifici e le sue delusioni, è a conoscenza che il “mercato” non offre grandi guadagni e che il pescato richiesto è scarso, ci dona grande fiducia, ci fa sentire capiti e soprattutto incoraggiati nell’essere sempre sull’onda. Devo riconoscere che sentirsi sostenuti, come evidenzia il Papa in uno dei bellissimi passaggi, dalla fraternità sacerdotale e dalla paternità del vescovo è una grande benedizione, soprattutto perché non sperimenti quella solitudine primordiale dell’uomo, ma la comunione come una grazia per la tua personale vita.
Nella lettera Papa Francesco raccomanda la compassione verso il dolore, l’amicizia con il popolo di Dio e la vigilanza nella preghiera contro la tristezza provocata dall’accidia: cosa pensa di tutto questo un parroco?
Sto riflettendo molto sulle raccomandazioni del Papa. La compassione verso il dolore degli altri è un dono intrinseco della vocazione sacerdotale e credo più specificatamente del sacramento della penitenza. Cerco spesso nel mio servizio sacerdotale di essere presente per la confessione poiché noto sia nell’esperienza personale come penitente che nell’essere ministro del sacramento che il fedele, oltre a essere pentito della sua colpa, ha il desiderio di essere accompagnato e sostenuto nel cammino di resurrezione dalla sua condizione. Una volta un giovane in confessionale esordì dicendomi che si sarebbe sentito perdonato solo se sicuro di essere accompagnato e sostenuto. Faccio spesso esperienza della grande impotenza umana nell’accompagnamento spirituale dei giovani, loro ti “vomitano” addosso tutti i loro grandi problemi e le loro delusioni, ma hanno un analogo desiderio che tu sia lì accanto a loro, per piangere e gioire insieme. Le nostre comunità hanno necessità di avere accanto a sé un “padre” (così spesso amano chiamarci più che “don”) che sappia consigliarli e illuminarli, ma credo ancor più di un sano ed equilibrato amico che non giudichi nessuno ma cammini con loro. Ho letto e riletto molte volte la parte sul «più prezioso degli elisir del demonio» che il Papa evidenzia circa l’accidia. Ho pensato molto a quante volte, lasciandosi attanagliare da questo vizio, ci si sente soli, scoraggiati e orfani. La mancanza di una vita spirituale del sacerdote non indebolisce solo la capacità di catechesi, ma la sua umanità, ti senti disincarnato, paralizzato, sterile, incapace e in un certo senso tradisci la tua chiamata, perché, ed è vero, i tuoi parrocchiani da te vogliono una cosa sola, il tuo essere sacerdote tra loro; è in fondo l’esperienza che si matura camminando accanto alle famiglie della tua parrocchia, loro sono le tue famiglie e tu sei il loro sacerdote, la loro guida spirituale. La gratitudine che dobbiamo vivere e celebrare nella lode, come ha indicato questo documento, è la stessa che in questo momento sento per il Papa nel dono fattoci di questa lettera, è l’incoraggiamento a “non mollare mai” nel cammino ordinario, il consiglio ad avere lo sguardo fisso verso Maria. Ogni volta che mi reco alla Santa Casa di Loreto fisso e medito sempre quella frase evangelica lì detta e scritta: fiat mihi, fai di me come vuoi. Grazie Francesco. (A.M.)
L’Osservatore Romano, 20-21 agosto 2019