«I padrini non sopportano la Chiesa che sta sul territorio»

«Trent’anni fa, di questi tempi, don Pino Puglisi mi parlava dei Graviano, i boss di Brancaccio che poi avrebbero decretato la sua morte: diceva che erano come una cappa su un quartiere che non ha neanche la scuola media». Salvo Palazzolo, inviato di Repubblica, quei giorni non li ha mai dimenticati. Allora era un giovane responsabile del gruppo Fuci – la federazione degli studenti cattolici – di Palermo. Oggi quel ricordo apre il libro sui boss di Brancaccio appena arrivato nelle librerie: “I fratelli Graviano – stragi di mafia, segreti, complicità”, edito da Laterza. «Don Pino aveva già compreso che Brancaccio era al centro di importanti dinamiche di mafia, quelle che portarono alle stragi del ’92-‘93».

Sin dalle prime pagine, si capisce che è un libro pensato a lungo a cui sono legati anche ricordi personali molto forti.

«È così. Don Pino, assistente spirituale del gruppo Fuci, ci portò con lui a Brancaccio quando divenne parroco nel 1991. Allora non ci rendemmo conto di qual era la vera posta in gioco, non capimmo chi erano davvero i Graviano. Quando seppi del suo omicidio mi resi conto di non avere capito proprio nulla. Ho cominciato nel peggiore dei modi il mestiere di cronista, non comprendendo ciò che accadeva attorno a me. In quei giorni, iniziai una lunga corsa per capire chi erano davvero i fratelli Graviano: Giuseppe, killer fidato di Riina; Filippo, manager di tanti investimenti. Sono i boss condannati per tutte quelle stragi. Questo libro è per me il bilancio di una lunga stagione di articoli e inchieste per provare a comprendere cosa si nasconde dietro le bombe mafiose».

E oggi Giuseppe Graviano è tornato a parlare. Perché la sua testimonianza può essere ancora importante?

«Nessuno aveva mai fatto un libro sui fratelli Graviano. E, invece, sono il fulcro dei misteri che ancora restano. Riina diceva che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro erano la sua super cosa, da contrapporre alla superprocura voluta da Giovanni Falcone. Ebbene, Messina Denaro è latitante dal giugno 1993, Giuseppe Graviano invece parla, anzi straparla, al processo ‘ndrangheta stragista di Reggio Calabria, mandando messaggi in codice. Nel libro ripercorro le esternazioni di questo padrino irriducibile, la verità è nelle cose che non dice».

C’è un nome che Graviano non fa ed è proprio quello di Matteo Messina Denaro, la persona che incontra all’inizio del libro…

«La latitanza di Messina Denaro è strettamente legata ai misteri di Giuseppe e Filippo Graviano. I tre padrini siciliani conoscono le complicità di Salvatore Riina, il capo dei capi di Cosa nostra morto in carcere nel 2017. I boss non hanno più eserciti di sicari a disposizione, la loro forza sta nei segreti del passato, con cui possono ancora ricattare i loro vecchi referenti. Magari, per provare a ottenere modifiche legislative che portino a un alleggerimento del carcere duro». Padre Puglisi aveva capito molto dei Graviano…

«Bisognerebbe tornare a rileggere le parole dei nostri martiri, da don Pino Puglisi a Ninni Cassarà, da Carlo Alberto dalla Chiesa a Paolo Borsellino: avevano già scoperto tante cose sull’evoluzione del fenomeno mafioso, ma nessuno capì. Nel libro racconto delle straordinarie scoperte del commissario Cassarà sul padre dei fratelli Graviano e su alcuni investimenti al Nord, una storia ancora attualissima».

In questo momento sembra esserci una pax mafiosa, eppure proprio dalla periferia sud di Palermo arrivano segnali preoccupanti: dal rifiuto di denunciare gli estorsori allo spaccio di droga. Quanto conta ancora la famiglia Graviano? E come si sono ricostituite le cosche?

«Qualche tempo fa, un mafioso arrestato dalla squadra mobile di Palermo si vantava di essere cresciuto alla scuola di don Michele, il padre dei Graviano. I due fratelli rinchiusi al 41 bis dal gennaio 1994 restano un modello e un punto di riferimento per il popolo di Cosa nostra. Purtroppo, Brancaccio è ancora per molti versi una roccaforte di mafia, è la periferia di Palermo dove quaranta commercianti sono stati indagati dalla procura per favoreggiamento ai boss: hanno preferito non denunciare i mafiosi, nonostante l’evidenza delle intercettazioni. Non credo che abbiano paura, probabilmente ritengono più conveniente pagare la mafia per ottenere servizi: dal recupero crediti alla commercializzazione in esclusiva di determinati prodotti in una zona».

C’è un passaggio molto emozionante nelle prime pagine del libro in cui racconti di una telefonata con Don Pino Puglisi. Quanto ha pesato quella telefonata, i colloqui con lui nella tua scelta di rimanere a Palermo?

«Una settimana prima di essere ucciso, sentii don Pino al telefono, per preparare un incontro. Mi chiese com’erano andati gli esami per la scuola di giornalismo di Milano. Mi disse: “Vuoi davvero andare via dalla Sicilia? Qui c’è tanto da raccontare. Mi disse pure: “Quest’anno non sarò con voi”. Pensavo facesse riferimento ai suoi tanti impegni. Gli risposi in maniera che oggi definisco in un solo modo, stupida: “Magari potremmo parlare con il vescovo, per avere un aiuto”, dissi. Continuavo a non capire. Don Pino aveva ricevuto delle minacce, sapeva di andare incontro al martirio. In solitudine».

Chiesa e mafia è un tema che torna nel libro. La situazione a 30 anni di distanza è infinitamente diversa. Cosa può ancora fare la Chiesa per marcare ancora di più le distanze?

«Qualche anno fa, Riina venne intercettato in carcere: lanciava strali contro don Ciotti, diceva che era come don Pino, il quale “non stava in chiesa – questo diceva il capo dei capi di Cosa nostra – ma pensava al campetto di calcio, alla scuola, al territorio”. Ecco cosa dà fastidio alla mafia: la chiesa che sta sul territorio».

Perché è ancora importante indagare sui Graviano?

«Intanto, conoscere la loro storia serve a comprendere la pericolosità dei boss di Brancaccio, ancora attuale. E, poi, bisogna continuare a indagare per scoprire il tesoro che nascondono, mai sequestrato. Bisogna continuare a indagare anche per svelare i nomi dei misteriosi complici che ebbero un ruolo nelle stragi. Il 19 luglio 1992, Giuseppe Graviano azionò il telecomando che scatenò l’inferno in via D’Amelio. Il pentito Spatuzza ha raccontato che il giorno prima c’era un esperto artificiere nel garage dove si preparava l’autobomba per Borsellino. Fra i misteriosi complici di Graviano, c’è anche un esperto sub, che aveva il compito di recuperare l’esplosivo. E, poi, ci sono i suggeritori che indicarono ai mafiosi gli obiettivi per le stragi del 1993, fra Firenze, Milano e Roma».

Trent’anni dopo, qual è il bilancio di quel giovane della Fuci che ha scelto di fare il giornalista?

«Il libro che ho scritto è un bilancio non certo per chiudere una stagione di impegno e ricerche, ma per rilanciarla: oggi la mafia è cambiata. Il superlatitante Messina Denaro è tornato a un modello criminale che investe e ricicla in forme sempre nuove. Intanto, alimenta altri rapporti con pezzi della politica. Forse, siamo un’altra volta in ritardo nel comprendere quello che accade attorno a noi».

Famiglia Cristiana