Guerra da «pazzi» La tragedia infinita somala: impennata di disturbi psichici

DA BOSASO (PUNTLAND) MATTEO FRASCHINI KOFFI

Il cellulare del dottor Abdika­dir Kalif Ali non smette di squillare. Come direttore del­l’unico dipartimento di salute mentale in tutto il Puntland, at­tivo all’interno dell’ospedale ge­nerale della cittadina di Bosaso, il suo è uno dei lavori più diffici­li in Somalia. «A volte percorro­no chilometri sotto il sole, rag­giungono la collina più vicina, e appena trovano il segnale mi chiamano – afferma Ali –. Sono i familiari dei miei pazienti che vogliono sapere quando posso­no venire in ospedale a ricevere i medicinali. Ma senza un mag­giore supporto internazionale, sono spesso costretto a farli a­spettare per giorni». In questa rovente regione del Corno d’Africa, autoproclama­tasi autonoma con l’inizio della guerra civile nel 1991, passare molti giorni senza i farmaci ne­cessari può risultare fatale. So­prattutto nei numerosissimi ca­si di patologie mentali, in cui a soffrire non è solo il malato, ma chiunque gli sta vicino. La sche­da medica che il dottor Ali ha tra le mani parla di un giovane schi­zofrenico in cura dal 2005, che più volte ha aggredito i suoi fa­miliari, lanciando oggetti contro di loro e sferrando pugni e calci. A questo si aggiungono i fre­quenti attacchi di epilessia, che per diversi anni lo hanno co­stretto all’isolamento. «Purtroppo, la sua famiglia lo terrà incatenato in un angolo della casa fino a quando riuscirà a somministrargli i farmaci – spiega il direttore del diparti­mento –. In Somalia situazioni del genere sono frequenti. In as­senza delle medicine per questo tipo di pazienti, soprattutto nel­le zone rurali in cui le malattie psichiatriche sono ‘rifiutate’ o considerate ‘maledizioni’, i fa­miliari spesso si riducono a te­nere il congiunto in catene per evitare che faccia del male a se stesso e alle persone che gli stan­no intorno». La salute mentale della popola­zione è un tema tanto grave quanto poco affrontato a causa dell’interminabile conflitto civi­le in corso nella Somalia centro­meridionale, le tragiche riper­cussioni del quale si riverberano nel resto del Paese. Le agenzie u­manitarie internazionali, scar­samente presenti sul campo per via della pericolosità del conte­sto, considerano Bosaso la meta più ‘trafficata’ di tutto il Corno d’Africa. Un drammatico vortice di sfollati interni, provenienti in gran parte dal Sud del Paese, si mescola a migliaia di rifugiati scappati dalle carestie etiopiche o dal regime eritreo. Inoltre, non è facile distinguere gli altri grup­pi originari dell’Ogaden, una va­sta regione ufficialmente parte dell’Etiopia, ma occupata dal clan somalo dei darod-ogadeni, dove è in corso una feroce e ‘si­lenziosa’ guerra per accaparrar­si le risorse naturali presenti nel sottosuolo. Negli anni si è anche formato un gruppo composto dai richiedenti asilo, che com­prende persino cittadini origi­nari della Repubblica democra­tica del Congo, del Sudan e del­la Mauritania. «A volte scoppiano alcune in­comprensioni tra la comunità o­spitante e il resto della popola­zione – conferma Mohamed Said, vice-direttore dell’ospeda­le pubblico di Bosaso –. Ma ge­neralmente le relazioni sono buone, perché capiamo il dolo­re di chi fugge dalla guerra. Mol­ti sfollati hanno visto i familiari uccisi davanti ai loro occhi – con­tinua Said – è per questo che la salute mentale dovrebbe essere uno degli elementi di maggiore attenzione da parte di chi li as­siste ». Secondo le autorità, l’alta per­centuale di disoccupazione è un’altra delle principali cause di patologie psichiatriche che af­fliggono sia i cittadini del Pun­tland sia i profughi. La scheda medica di Ahmed, somalo di trent’anni, attesta che il pa­ziente soffre di depressione, schizofrenia e malnutrizio­ne, poiché crede che il cibo abbia strani poteri e lo pos­sa avvelenare. «Non aven­do abbastanza farmaci, molti dei nostri pazienti aggravano le loro con­dizioni mentali ma­sticando il Khat, l’erba allucinoge­na che permette anche di non sentire i mor­si della fa­me », dice Hawa, o­peratrice sociale del Gruppo per le rela­zioni tran­scultu­rali (Grt), un’orga­nizzazione non governativa italia­na che lavora in Somalia dal 1996 e ha aperto nel 2003 il dipartimento di salute mentale a Bosaso. «Inoltre, sono tante le fami­glie convinte che tali malattie non possano essere cu­rate e, quindi, si limitano a iso­lare per anni chi ne è colpito, sperando che prima o poi si cal­mi ». Sebbene non si abbiano stime attendibili riguardo il numero di malati mentali in Somalia, le au­torità ritengono che quasi metà della popolazione somala soffra di disturbi psicologici. Dal 2003, i pazienti seguiti dal Grt sono più di 3mila, ma il grosso del progetto che fi­nanziava questo dipartimento è stato forzata­mente sospeso nel 2008 in attesa di altri fondi umani­tari. «Stiamo cer­cando l’aiuto delle agen­zie internazionali – afferma Mohamed Ahmed, segretario re­gionale per il ministero della Sa­nità –. Però sappiamo che la cau­sa di questi problemi sta nel con­flitto endemico e nella mancan­za di un governo centrale che possa rendere migliore la vita della nostra popolazione». Per i somali che scappano dalla guerra e s’insediano alla perife­ria di Bosaso, sparsi per ventisei campi profughi (che secondo l’Onu ospitano più di 28mila ci­vili), non resta che costruire do­ve si può capanne fatte di strac­ci e cartoni trovati nelle discari­che a cielo aperto. Solo nell’ulti­ma settimana, vi sono stati due incendi spontanei provocati da un sole infernale che ha inne­scato il rogo di più di 500 abita­zioni, con la morte di un bambi­no e decine di ustionati. Quan­do la Croce Rossa è arrivata per valutare la situazione e registra­re le persone che in pochi, terri­ficanti minuti hanno perso quel poco che possedevano, un litigio ha provocato il ferimento di uno dei soldati governativi che fan­no da scorta ai convogli umani­tari e al personale straniero. «La gente è stanca, frustrata e ar­rabbiata », spiega il dottor Ali. «Lo stress che hanno accumulato in questi anni aumenta giorno do­po giorno e il mio dipartimento da solo non può affrontare tutto il lavoro necessario. Abbiamo bi­sogno di più sostegno, altrimen­ti vedremo letteralmente ‘im­pazzire’ l’intera popolazione so­mala ». (avvenire)