Giovani e politica: le attese e le speranze

di EMILIA PALLADINO e CARLO LATORRE
  
   Vita Pastorale n. 3 marzo 2010   

Il disinteresse e l’indifferenza dei giovani verso la politica, così com’è, ci è noto. Cosa fare perché essa diventi un’esigente forma di carità?
 

Dopo aver analizzato, negli articoli dei mesi precedenti, il tema delle relazioni dei giovani con la famiglia d’origine e con il gruppo dei pari, anche in vista della creazione di una famiglia propria, questo mese esaminiamo il rapporto fra giovani e politica. Prima di approfondire questo argomento, è opportuno chiarire che, in questo articolo, la politica è intesa nel senso originario del termine: "scienza" che, mediante la collaborazione costruttiva di diverse sensibilità, intelligenze e competenze adeguate, mira alla realizzazione del bene della polis, quel bene comune che la Gaudium et spes definisce come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente».

Una politica che sia intesa come servizio della persona umana, vista come suo fondamento e fine. Tutto ciò è ben sintetizzato al n. 46 della Octogesima adveniens di Paolo VI: «Il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti… La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva… Pur riconoscendo l’autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l’evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini».

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La politica ha bisogno dei giovani

Il Paese si appresta a vivere una fase elettorale importante, nella quale il rinnovo degli incarichi amministrativi in alcune regioni potrebbe configurarsi anche come occasione di verifica per il buon andamento del nostro sistema di governo. Molti giovani saranno chiamati alle urne per la prima volta e acquisiranno uno dei diritti fondamentali grazie a cui si esprime la dignità della persona umana: l’esercizio libero del proprio voto. Il diritto al voto è una realtà importante; spesso, infatti, si dimentica quanto la rivendicazione di tale diritto e il rispetto della sua espressione costituiscano ancora oggi motivo di lotta in alcuni Paesi del mondo o, ancora, basti ricordare che in Italia le prime elezioni a suffragio universale si tennero solo nel 1946, all’indomani della caduta del regime fascista.

I giovani dei nostri giorni, da poco maggiorenni, si uniscono ai loro coetanei che, un po’ più grandi, già godono del diritto di voto. In Italia i giovani elettori sotto i 30 anni sono circa 8 milioni e mezzo. Un numero ingente e, per questo, ogni realtà politica dovrebbe valutare e ponderare attentamente il contributo della generazione più giovane. La politica, infatti, ha bisogno dei giovani, le cui attese e speranze possono richiamare chi "fa politica" alla correttezza, all’onestà, alla difesa e alla promozione del futuro, proprio per tutelare quei giovani votanti ai quali viene richiesta una maturità civile e sociale tale da comprendere la portata del gesto che compiono.

Questo, tuttavia, è vero solo in teoria. L’esperienza degli operatori di pastorale giovanile e di ogni adulto che abbia contatti con i giovani come educatore, si scontra con il profondo disinteresse e la preoccupante indifferenza dei giovani per la politica. Questo fenomeno ha radici storico-culturali complesse: l’attuale politica italiana è nata dalle impostazioni di De Gasperi e dell’Assemblea Costituente, ma risente anche del ’68 e degli eventi legati al terrorismo degli anni ’70, culminati nel sequestro e nell’assassinio di Aldo Moro, eventi che hanno contribuito a una profonda e in parte destabilizzante revisione del sistema politico del Paese.

In effetti, la classe politica italiana non è riuscita a mantenere la tenuta valoriale sancita dalla Costituzione alla nascita della Repubblica. Negli ultimi anni, la politica non ha offerto una bella immagine di sé: abbiamo assistito e assistiamo a un cedimento della tenuta morale del confronto politico comune ad ogni schieramento, a un costante abbassamento del livello valoriale nel tentativo di realizzare il bene comune, alla progressiva "tecnicizzazione" delle competenze politiche che rendono sempre più rara l’importante vocazione, e non professione, dello statista. La sensazione diffusa nell’opinione pubblica è che la politica non sia più "scienza del buon governo" ma tenace e a volte indecente perseguimento dei propri interessi a scapito di quelli dell’intera società, prevalenza della furbizia e della scaltrezza sull’intelligenza onesta e sulla volontà di collaborare, dell’impunità a fronte dell’esigenza di ordinare e proteggere il vivere civile.

I giovani, privi di interesse per la politica, giustificano la loro scelta di "starne fuori" con pochi e superficiali luoghi comuni e non fanno altro che ripetere atteggiamenti e posizioni che sono in realtà dei genitori, degli educatori, degli operatori. Condividono con gli adulti un ostinato rifiuto a porsi dinanzi all’argomento politico con maggiore intelligenza e senso etico, nel tentativo di comprendere cosa davvero significhi "fare politica" e cosa sia la politica. L’ignoranza dei nostri giovani, la loro insistenza a non voler capire, a non voler approfondire, la loro sconcertante assenza di curiosità affonda le sue radici nella superficialità con cui gli adulti parlano del fatto politico e con cui ne interpretano lo svolgimento, evitando di darne un giudizio morale costruttivo che si traduca in scelte concrete e motivate. Questo discorso, lungi dal negare quelle responsabilità del disinteresse e dell’indifferenza verso la politica che possono ascriversi solo ai giovani, vuole sottolineare, ancora una volta, che, anche per la politica, il giovane impara dall’ambiente in cui cresce, ne assimila quanto può essergli utile per definire pensieri, atteggiamenti, scelte.

Come affrontare le questioni

In questo ambito, la Dottrina sociale della Chiesa può essere di grande aiuto. Essa suggerisce un metodo per affrontare le questioni sociali, politiche, economiche e morali: «Nel tradurre in termini di concretezza i principi e le direttive sociali, si passa di solito attraverso tre momenti: rilevazione delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano. Sono i tre momenti che si sogliono esprimere nei tre termini: vedere, giudicare, agire».

Le parole di Giovanni XXIII indicano un criterio di comportamento che, soprattutto nel caso della politica, risulta illuminante. I tre verbi finali, infatti, descrivono una virtuosa successione cronologica che inizia con il valutare le situazioni che ci si presentano evitando la superficialità, cogliendone l’originalità senza la presunzione di "sapere già tutto", ma con l’umiltà di chi cerca di vedere soprattutto quello che sfugge a uno sguardo distratto e approssimativo. Come operatori pastorali impegnati con i giovani è importante creare luoghi di dialogo attento e rispettoso sul mondo che vive intorno a noi, bisogna avere il coraggio di lanciare uno sguardo fuori dalle nostre sacrestie e farvi entrare l’aria che si respira nel mondo per poter giungere al passo successivo, il giudicare.

Giudicare va inteso anche come discernere. È un momento molto delicato, si tratta di comprendere una particolare realtà alla luce del Vangelo e di un approccio virtuoso e "buono" al valore dell’esistenza propria e degli altri. Deve essere un giudicare sempre pronto a riformularsi e a mettersi in discussione, qualora ci si renda conto di non «aver amato abbastanza». Come operatori pastorali a contatto con i giovani dobbiamo avere il coraggio di respirare l’aria del mondo e di farla passare nei polmoni della fede per ossigenarla con il Vangelo. Bisogna creare occasioni di riflessione sulle scelte che i nostri politici compiono, crescere nella coscienza che il nostro voto non è una delega in bianco ma un impegno reciproco, votanti e votati, per il bene comune. Solo un discernimento così inteso può aprirci la strada verso il terzo passo.

Compito degli operatori pastorali

L’agire, infatti, nasce da una scelta pensata, riflettuta, ponderata e condivisa, conseguenza di un procedere quanto più possibile onesto intellettualmente e corretto moralmente. Noi operatori pastorali abbiamo il dovere, con i nostri giovani, di soffiare il vento dello Spirito nel mondo attraverso le nostre azioni, orientate alla costruzione della civiltà dell’amore per far sì che la politica diventi quello che è, ovvero la più alta ed esigente forma di carità, come abbiamo detto all’inizio, citando Paolo VI. Questo approccio, valido e corretto in ogni circostanza, risulta particolarmente appropriato nell’ambito della politica. Essa va affrontata con serietà, onorandone il compito altissimo che possiede e trasmettendone il grande valore alle giovani generazioni, che non ci deluderanno nell’impegno e nello sforzo di migliorarsi. Tanti sono i giovani pronti a seguire valori alti, a vivere senza compromessi. A loro dobbiamo dimostrare che occuparsi del bene proprio e altrui è compito nobile; per loro dobbiamo recuperare l’originaria bellezza del "fare politica"; con loro dobbiamo sconfiggere l’ignoranza e il disinteresse.

Emilia Palladino e Carlo Latorre