Gesù, domande e punti fermi della ricerca storica

Il titolo che è stato scelto per questo evento , “Gesù nostro contemporaneo”, indica i due poli entro i quali si gioca tutto il contenuto dell’evento. Da una parte Gesù di Nazaret, il giudeo vissuto duemila anni fa in Palestina, in tutta la concretezza della sua vicenda storica. Dall’altra questo stesso Gesù, proprio in questa sua concretezza, come colui che è vivo oggi, vive con noi e per noi e può dirsi perciò contemporaneo nostro, come di tutti gli uomini e le donne che verranno dopo di noi, non in un senso sostanzialmente metaforico, per indicare la forza con cui è impresso nel nostro ricordo, o anche il nostro impegno a prendere esempio da lui e a conformare il nostro modo di vivere al suo, bensì in senso proprio e reale. Ci esponiamo così all’obiezione sollevata già nel 1777 da Gotthold Ephraim Lessing, a giudizio del quale verità storiche non possono diventare una prova di verità eterne e la distanza storica che continuamente si allarga tra Gesù e noi comporta una diminuzione inevitabile della sua rilevanza per noi. Osservazione quest’ultima che sembra di semplice buon senso. Da allora in poi la tendenza a relegare Gesù nel passato si è diffusa fino a diventare per gran parte della cultura attuale quasi un’evidenza, anche quando si riconosce il valore e l’attualità del suo esempio di vita e di alcuni suoi insegnamenti. Per chi crede in lui, relegare Gesù nel passato è però impossibile, significherebbe tagliare il legame che unisce la nostra esistenza alla sua. Perciò Sören Kierkegaard ha dato a Lessing una risposta secca: quella del “salto” della fede, che supera il tempo e ci rende contemporanei di Gesù. Se ci limitiamo a questo, però, corriamo un altro rischio, quello di evadere dalla storia, mentre il cuore della nostra fede sta proprio nell’entrata di Dio nella storia. (…)

Mi permetto di aggiungere qualche parola per fornire una minima indicazione riguardo allo stato attuale della ricerca sul Gesù storico. Non sono un biblista ma questo tema mi ha sempre appassionato, fin da quando ero giovane. Due anni fa è uscito un piccolo libro di Giuseppe Segalla, docente emerito della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, che è il maggiore studioso italiano dell’argomento. In questo libretto, intitolato La ricerca del Gesù storico, edito dalla Queriniana, Segalla presenta brevemente le grandi tappe di questa ricerca e soprattutto illustra la sua fase attuale e le tendenze in atto: a lui soprattutto farò riferimento.

La prima grande tappa della ricerca storica su Gesù è quella di stampo liberale, illuministico e romantico, che dura dalle ultime decadi del 700 fino ad Albert Schweitzer, all’inizio del 900. Essa era improntata al tentativo di liberare la figura storica di Gesù dai vincoli e dalle sovrastrutture che sarebbero rappresentate dal dogma ecclesiastico, per riscoprirlo nella sua genuinità, che sarebbe quella del sommo maestro di morale, come la morale era concepita nell’800. Ma alla fine della ricerca diventa evidente la dimensione escatologica della figura di Gesù, cioè la sua attesa del regno di Dio, in altre parole della salvezza a opera di Dio, che sta per venire. Così, conclude Schweitzer, Gesù esce dal nostro tempo e ritorna nel suo. È seguita una fase di scetticismo storico, che tendeva a escludere la possibilità di conoscere con certezza qualcosa del Gesù storico, a eccezione della sua esistenza, della sua morte in croce e di poco altro: l’esponente di maggior spicco di questa fase è stato il grande esegeta Rudolf Bultmann, celebre per la sua teoria della demitizzazione e per la sua interpretazione esistenziale del messaggio del Nuovo Testamento.

In una celebre conferenza del 1953 un discepolo di Bultmann, Ernst Käsemann, riaffermava però la necessità e la possibilità dello studio del Gesù della storia e apriva così la nuova, seconda ricerca sul Gesù storico, ricca di risultati ma ancora molto condizionata da precomprensioni derivanti da Bultmann. Questa seconda ricerca, ancora a dominanza germanica, si può dire sia durata fino agli inizi degli anni ’80. L’opera di Ed Parish Sanders, Gesù e il giudaismo, uscita nel 1985, può forse dirsi l’inizio della “terza ricerca”, quella che dura tutt’oggi e che si distingue dalle precedenti soprattutto per aver superato la contrapposizione tra Gesù e il giudaismo e per aver messo invece l’accento sull’appartenenza di Gesù al giudaismo palestinese del suo tempo. La maggiore espressione della terza ricerca sono i quattro grossi volumi di John P. Meier, sacerdote cattolico nordamericano, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, editi dalla Queriniana. Con la terza ricerca il baricentro passa dall’area germanica a quella anglosassone. Sia nella seconda sia nella terza ricerca coesistono posizioni molto differenziate a proposito sia della possibilità di conoscere con maggiore o minore ampiezza e certezza la figura storica di Gesù, sia del suo emergere o meno dalla sola dimensione umana per collocarsi anche dalla parte di Dio.

Negli anni 2000, soprattutto con le opere del biblista inglese James Dunn, La memoria di Gesù, in tre volumi editi in italiano da Paideia, e dell’americano Richard Bauckham, Gesù e i testimoni oculari, che io sappia non ancora tradotta in italiano, si è aperto però quello che Giuseppe Segalla chiama «il secondo versante della terza ricerca», caratterizzato dal riconoscimento della sostanziale attendibilità storica delle tradizioni su Gesù conservateci nei Vangeli e risalenti appunto alla memoria della comunità di Gesù e in particolare ai “testimoni oculari” di lui, delle sue parole e delle sue opere. Così la figura storica di Gesù riacquista il suo spessore e la sua concretezza, in maniera nuova e criticamente più consapevole. Segalla conclude il suo libretto sottolineando la necessità di ricuperare meglio anche la storicità del quarto Vangelo, cioè delle tradizioni giovannee, diverse ma non alternative a quelle sinottiche, e di integrarla nella ricerca sul Gesù storico. Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI ha già dato una risposta sostanziale a questa esigenza.
Chiedo venia se indico ancora, brevemente, quali siano, a mio parere, gli aspetti salienti della figura storica di Gesù di Nazaret. Possiamo distinguerli in alcune grandi categorie, senza dimenticare la loro stretta connessione reciproca.

A una prima categoria appartengono le parole e gli insegnamenti di Gesù, incentrati sulla venuta del regno di Dio, che si segnalano per la loro forza sconvolgente e validità intrinseca, capacità di incidere e di convertire: parole antiche e nuove, ma finalmente “uniche” e attuali nella loro sostanza anche dopo duemila anni. Parole dette «come da uno che ha autorità» (Mc 1,22), in maniera impensabile nel contesto giudaico del suo tempo.
Un’altra categoria è costituita dagli “atti di potenza”, “segni” o “opere” che Gesù ha compiuto: la loro storicità sostanziale (al di là del giudizio sui singoli eventi e sulla tendenza alla loro amplificazione) appare incontestabile e la “terza ricerca” su Gesù è per lo più orientata a riconoscerla come dimensione ineliminabile del Gesù della storia, anche se sulla loro interpretazione continua a pesare in larga misura il presupposto della non conoscibilità di interventi diretti di Dio nella storia.

Difficile ma inevitabile e decisiva è poi la questione della coscienza che Gesù ha avuto di se stesso, del suo rapporto con il Padre e della missione che ne scaturiva: coscienza che emerge anzitutto dalla sua preghiera, dalla chiamata dei discepoli e dal tipo di rapporto che egli ha instaurato con loro; in particolare dal modo in cui egli pone se stesso al centro sia di tale rapporto sia del messaggio del regno di Dio, contrariamente alla tesi che ha dominato a lungo nella ricerca storica, secondo la quale il messaggio del regno di Gesù sarebbe stato completamente diverso rispetto alla cristologia post-pasquale degli scritti del Nuovo Testamento.

La questione dell’autocoscienza di Gesù si pone con particolare acutezza in momenti specifici della sua esistenza, come la cena che egli ha consumato con i suoi discepoli prima della sua passione. La tradizione della cena fa parte sicuramente della tradizione più antica, in base ai dati storici niente può esservi di più originale di essa. Soltanto perché risaliva a Gesù stesso, lo “spezzare il pane” ha potuto affermarsi fin dall’inizio in tutte le correnti della comunità post-pasquale. Dalla cena emerge come il Gesù della storia abbia concepito e vissuto la propria morte come decisiva per aprire a noi l’accesso al Dio vivente.

Tutto ciò che si può affermare riguardo a Gesù di Nazaret rimane però in qualche modo “sospeso” davanti alla questione della sua risurrezione dai morti, come già sottolineava con grande forza l’Apostolo Paolo: «Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione e vuota è anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Anche oggi «la fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti», come ha scritto Benedetto XVI nel secondo volume del Gesù di Nazaret (p. 269).

 

Camillo Ruini – avvenire.it