Genitori impauriti dalle tecnologie, l’errore da non fare

Avvenire

Ogni volta che leggiamo di un ragazzo morto per colpa (anche) della tecnologia, veniamo invasi da un dolore enorme. Dopo avere pensato alla vittima e ai suoi familiari, e dopo avere pregato per entrambi, ci diciamo con angoscia: la tecnologia sta uccidendo i nostri ragazzi. Segue un’onda di paura, anche fisica, accompagnata da un altro pensiero: potrebbe accadere a mia figlia o a mio figlio (mio nipote, eccetera). Subito dopo sorgono due domande. La prima: cosa possiamo fare noi adulti per prevenire tutto questo? La seconda: come possiamo fermare tutto questo?
Il primo istinto è quello di spegnere tutto. Di far sparire tutto. Di buttare gli smartphone dalla finestra e di chiudere tutti i nostri profili social e farli chiudere anche ai nostri figli e nipoti. Quando lo scorso dicembre a Milano fu trovato morto il 14enne Igor, dopo avere visto un video su una «sfida pericolosa», ci fu chi propose di chiudere YouTube, cioè una piattaforma multimiliardaria presente in tutto il mondo, dove vengono caricati 2 miliardi di video ogni anno. La Procura di Milano intervenne. E annunciò: «Il filmato non è più visibile ai minorenni e così, altri 15 video su YouTube con caratteristiche simili». I genitori si sentirono (un po’) più sicuri. E nessuno ebbe il coraggio di dire loro che basta cambiare un carattere dell’indirizzo del filmato per accedere su YouTube a un video vietato ai minori.
Rimaniamo ai fatti di cronaca. 19 marzo 2019. Ricattata da un quindicenne per alcune foto intime, una ragazzina di 13 anni ha meditato di suicidarsi in una scuola media di Lodi. Prima di farlo, però, ha lasciato un bigliettino a un’insegnante e così è stata salvata. L’altro ieri, invece, è arrivata la notizia di una ragazza che in Malesia si sarebbe suicidata dopo avere lanciato un sondaggio su Instagram chiedendo ai suoi follower: D/L? (cioè: vita o morte?). Uso il condizionale come hanno fatto tutti i media di quel Paese, mentre nel nostro nessuno sembra nutrire alcun dubbio sull’accaduto nonostante la distanza (geografica, culturale e linguistica) che ci separa dalla Malesia.
Lungi da me voler sottovalutare il problematico e a a volte pericoloso rapporto tra i bambini (e i ragazzi) e la tecnologia. Ma proprio perché si tratta di qualcosa di estremamente importante dobbiamo raccontarlo con un di più di responsabilità. Che non significa sottovalutarlo né nasconderne i difetti ma nemmeno sparare il mostro in prima pagina senza mai aspettare che i fatti siano chiari. La paura, seminata in piccole dosi, può aumentare la consapevolezza. Ma in grandi dosi fa solo danni. E troppi genitori ormai davanti allo strapotere delle tecnologie restano paralizzati dalla paura. Col risultato di non fare niente, facendo propria la frase «non sappiamo più come difenderci da questa deriva, se non col silenzio», apparsa ieri sulla prima pagina del più venduto quotidiano italiano. Un errore madornale. Mai come in questi casi abbiamo il dovere di non stare in silenzio e di non farci paralizzare dalla paura. Abbiamo il dovere di essere adulti, innanzitutto agli occhi dei nostri figli. Che non ci chiedono di essere esperti di tecnologie ma di vita. È faticoso? Certo, ma sempre più necessario. Troppo spesso infatti ci dimentichiamo che tanti ragazzi, come la 13enne di Lodi, decidono all’ultimo di vivere perché trovano un adulto di cui fidarsi. Perché la parola chiave in questi casi non è tecnologia (smartphone, social o quant’altro) ma fiducia. Che si crea ascoltando e dialogando. Cosa molto diversa dal silenzio impaurito o rassegnato.