Fratel Charles: icona del dialogo

di: Lorenzo Prezzi (a cura)

de foucauld

Il 15 maggio è stato dichiarato santo fratel Charles de Foucauld. Il teologo Brunetto Salvarani, nel suo ultimo libro (Fino a farsi fratello di tutti. Charles de Foucauld e papa Francesco), oltre  al profilo biografico, ne evidenzia soprattutto la modernità del desiderio di diventare «fratello di tutti», tanto che Francesco nella sua enciclica «Fratelli tutti» lo indica come icona del dialogo.

  • Brunetto, perché un nuovo libro su de Foucauld?

Quella di Charles de Foucauld è una figura che sfugge a ogni definizione assoluta: ma è certo che la sua vocazione profonda sia stata di tracciare nuovi sentieri nella sequela di Gesù, senza timore di imboccare itinerari tanto radicali quanto inediti.

Non mi sono proposto di scrivere una sua nuova biografia,¹ ma una riflessione su come il modello di santità ospitale vissuto dal fratello universale sia ancor oggi eloquente, e possa rappresentare un paradigma credibile nell’attuale cambiamento d’epoca, soprattutto nella prospettiva di un sempre più pressante incontro dialogico fra cristiani e musulmani.

Da qui la scansione del libro, suddiviso in tre capitoli in cui emergono – almeno me lo auguro – una moltitudine di fili che si potrebbero collegare l’uno all’altro in più di una direzione.

Nel primo capitolo passo in rassegna – senza pretesa di completezza, ovviamente – alcune fra le esperienze più significative di dialogo con il mondo musulmano, sperimentate o teorizzate sul versante cattolico del cristianesimo, da Francesco d’Assisi ai monaci martiri di Tibhirine, passando per la dichiarazione conciliare Nostra aetate e il card. Martini: all’interno di una storia densa di conflitti, fraintendimenti, incomprensioni. Gemme preziose da custodire nella nostra memoria ecclesiale, oggi così sfuocata e affaticata nel sedimentare la tradizione autentica.

Il secondo capitolo, servendosi spesso dei suoi scritti, si sofferma sulle vicende ardimentose e sorprendenti di de Foucauld, con l’obiettivo di mostrare quanto la sua vita risulti esemplare ma anche, paradossalmente, del tutto imitabile, nella sua ispirazione profonda, per quanti ne vogliano cogliere il senso genuino.

Il terzo capitolo, infine, tratteggia – a partire dai suoi testi e dal suo magistero dialogico – lo stretto rapporto che papa Francesco ha scelto di instaurare con l’eremita francese, quasi eleggendolo a punto di riferimento ideale e stella polare del suo progetto di relazioni fraterne con il mondo musulmano. Un progetto, ovviamente, del tutto antitetico al ventilato scontro di civiltà che ha furoreggiato nella cultura occidentale all’indomani dei tragici attentati dell’11 settembre 2001.

In tale ottica, Bergoglio sta tessendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla ricorrente narrativa della paura. È a questo livello che si comprende il significato storico del suo impegno contro i muri e ogni forma di guerra di religione, nell’intento di svuotare dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari che ombreggia una presunta apocalisse incombente e lo scontro finale. Facendoci comprendere che, come aveva ben inteso de Foucauld, in definitiva e nonostante le sirene contrarie, ospiti della terra nostra casa comune, siamo fratelli tutti.

Biografia e fede
  • In sintesi, quali sono i tratti salienti della vicenda umana di de Foucauld?

Charles-Eugène de Foucauld nasce a Strasburgo, in Alsazia, il 15 settembre 1858, da un’antica famiglia nobiliare il cui storico motto è “Mai ritirarsi!”; morirà in circostanze drammatiche, nel deserto algerino in cui si era spinto (e non ritirato) per seguire quella che aveva finalmente intuito essere la sua definitiva vocazione, il 1° dicembre 1916.

Ebbe una vita piuttosto breve, dunque, appena cinquantotto anni: eppure, le definizioni che gli si potrebbero attribuire sono tante, e variegate. Ufficiale di cavalleria ben disposto all’azione, brillante esploratore in terra africana, stimato geografo ed etnologo, meticoloso linguista e, naturalmente, uomo dello Spirito, presbitero, monaco e poi eremita in Dar al-Islam.

A dispetto di ciò e di un’esistenza quanto mai poliedrica, in realtà, di tutti gli obiettivi che si era dato, egli non ne raggiunse nemmeno uno: avrebbe voluto fondare un ordine religioso, o almeno un istituto di fratelli ma, nonostante ripetuti tentativi e sperimentazioni, non ci riuscì.

Rifiutò, d’altra parte, di diventare ciò che di volta in volta gli veniva richiesto dalla famiglia e dalle occasioni che gli si pararono davanti, dapprima studente modello e poi soldato di carriera, scegliendo di rimanere costantemente ai margini, per consegnarsi alla fine al silenzio, all’ascolto e alla preghiera.

Pur abitando nel deserto profondo fianco a fianco con i Tuareg, tradizionalmente musulmani sunniti, non determinò in loro alcuna conversione al Vangelo, fino a trovare la morte, assassinato per futili ragioni, quando ancora era nel pieno della sua maturità intellettuale e spirituale.

Per di più, infine, non lo si può dire un teologo in senso stretto, né un pensatore originale: quando morì, non aveva pubblicato nessuno dei suoi scritti spirituali né i suoi lavori di linguistica. Del resto, fu lui stesso a sceglierlo, sostenendo che le opere di misericordia da realizzarsi da parte dei futuri Piccoli Fratelli di Gesù si dovevano limitare a quelle che Gesù compiva a Nazaret: accogliere gli ospiti e dare loro l’elemosina.

La sua è una biografia sicuramente inquieta, quella di un uomo ansioso che non ha mai smesso di cercare: il sale della vita, se stesso, Dio, e alla fine soprattutto, e sopra ogni altra cosa, Gesù.

Un uomo che non sopportò le mezze misure, le mediazioni, gli equilibrismi, e tanto meno i compromessi, transitando spesso da un estremo all’altro, dagli abissi della dissipazione alla gloria mondana fino alla perfezione evangelica.

Ecco perché, imbattendosi in lui e nella sua storia da moderno padre del deserto, è impossibile rimanere indifferenti: o ci si innamora ingegnandosi a conoscere tutto di lui, o ci si rifiuta di farsi coinvolgere, di fronte a quello che potrebbe anche apparirci un idealista un po’ folle, incapace di fare i conti con la dura realtà. Tutto e subito, come quando Charles, il cristianesimo, lo ri-scopre (letteralmente, nel senso che riesce a togliere il velo che ne faceva la depositaria religione di famiglia, alla quale era costretto ad adeguarsi). Tanto da ammettere, nel 1886, già ventottenne: «Appena ho creduto che Dio esiste ho capito che non avrei potuto fare altro che vivere solo per lui».

Eppure, il nome di de Foucauld è divenuto, nel corso dei decenni, un punto di riferimento sicuro e imprescindibile per orientarsi in molteplici ambiti: ad esempio, per quanti vogliano accostarsi a una radicalità evangelica a imitazione di Gesù povero, per il sempre difficile (ma anche indilazionabile) dialogo fra cristiani e musulmani, per chi accetti di lasciarsi affascinare da una spiritualità del deserto accessibile sia ai credenti sia ai (cosiddetti) non credenti.

«Nella sua immagine – scrive Franca Giansoldati – forse possono riconoscersi tutti i falliti della storia». Ma già il suo primo biografo, René Bazin, aveva colto tale aspetto, presentandolo così: «È stato il monaco senza monastero, il maestro senza discepoli, il penitente che sosteneva, nella solitudine, la speranza di un’età che non doveva vedere…».

Fraternità
  • Qual è il ruolo di de Foucauld nell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti?

La presenza di frère Charles nella Fratelli tutti mi sembra più strategica rispetto alle citazioni a lui riservate nell’occasione. L’intera enciclica, infatti, è racchiusa fra due icone del dialogo: i paragrafi iniziali sono incentrati su Francesco d’Assisi, quelli conclusivi su de Foucauld.

Non è una forzatura scorgere in tale architettura una precisa indicazione del papa: il monaco francese ha raccolto il testimone dal primo, ne ha attualizzato l’eredità nel cuore della modernità, ha saputo similmente attrezzarsi con una visione lunga, incarnando lo spirito originario del Vangelo, quello – per ricorrere a un’espressione cara all’Assisiate – letto sine glossa.

L’uno e l’altro hanno trascorso la prima parte della loro esistenza fra esperienze militari, sognate o vissute, e nel silenzio di Dio, prima di cambiare strada e mentalità, letteralmente convertendosi pur essendo cresciuti con un’iniziazione cristiana.

Entrambi, infine, hanno saputo concretizzare il loro rispettivo sogno non a parole ma con gesti di una radicalità che aveva in sé germi di espansione universale. Fino a spingerci a sostenere che la spiritualità dell’eremita alsaziano non emerge solamente nei capoversi finali del documento papale, ma pervade l’intera enciclica.

Al n. 286 dell’enciclica papa Francesco lo cita – a parte – in un elenco di uomini e donne che l’hanno ispirato nella riflessione sulla fraternità universale. Ne ricorda la «profonda fede» e la «sua intensa esperienza di Dio», che l’ha condotto a compiere «un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti».

Questo è lo scenario in cui de Foucauld si risolse a vivere in terra straniera, affrontando la solitudine, con la sola certezza di voler trasformarsi nel prossimo di chiunque, testimone della possibilità reale di una fraternità priva di confini.

Ed è in tale chiave che non è difficile comprendere il motivo per cui il secondo capitolo della Fratelli tutti, intitolato Un estraneo sulla strada, va letto come il cuore pulsante di tutto il testo. Vi si commenta il racconto del cosiddetto Buon Samaritano (Lc 10,25-37), in cui Gesù risponde alla domanda “Chi è il mio prossimo?” (10, 29), alla maniera rabbinica, tramite un’ulteriore domanda: “Chi è stato il prossimo per quel poveraccio caduto nelle mani dei briganti?”. Si può dire che è dall’icona del Buon Samaritano, con i suoi gesti tutti umani e non motivati reli­giosamente, che ha inizio l’enciclica.

E, simmetrica­mente, essa si chiude con la spiritualità nazare­na di de Foucauld, che contrae con l’umanità che incrocia un rapporto d’amore non esibito, ma vissuto come dialogo e donazione che precedono lo stesso annuncio kerygmatico. Al modo in cui, nella vita nascosta di Gesù nei trent’an­ni di Nazaret, egli non ha predicato né de­clinato generalità religiose o identitarie, ma è vissuto da fratello e concittadino tra uomini.

Ecco poi il n. 287 dell’enciclica, in cui compare una fulminea, felicissima sintesi dell’esperienza spirituale di frère Charles, con un auspicio finale: «Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: “Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen».

In questa chiave, de Foucauld si avvia a diventare, di fatto, con la sua prossima canonizzazione, il santo del dialogo interreligioso. Che fu ricondotto alla fede cristiana dell’infanzia dall’incontro, durante un viaggio in Marocco, con musulmani ed ebrei che scandivano i propri giorni nella preghiera e l’abbandono a Dio. Perché gli incontri con l’alterità, a un orecchio capace di ascolto, non lasciano mai indifferenti.

Missione
  • Cos’ha da dire oggi de Foucauld rispetto al tema, così delicato, della missione cristiana?

È noto come negli ultimi decenni il concetto di missione sia stato sottoposto a un’amplissima revisione rispetto ai modelli finora adottati, revisione attuata non solo dai teorici della materia, i missiologi, ma anche dagli stessi operatori sul campo, missionarie e missionari, chierici e laici.

Le risposte alla crisi di tale nozione sono assai diversificate, così come i vissuti concreti degli attori diretti: dal recupero dei modelli più tradizionali che puntano a riproporre antichi schemi ritenuti solidi e inscalfibili, fino a tentare vie inedite che, nel corso della loro messa in opera, sperimentano – certo, a caro prezzo – l’arduo cammino di inculturazione dell’annuncio evangelico, nella consapevolezza che occorre sempre prendere le mosse ascoltando la realtà, prima ancora di sbandierare dottrine e idee da portare sul luogo sic et simpliciter.

Molte le cause della trasformazione in atto: dagli effetti della decolonizzazione nei Paesi che abbiamo chiamato fino a qualche anno fa del Terzo mondo agli sviluppi nelle scienze sociali, soprattutto in sociologia e antropologia, finalmente accolti come necessari per capire i cambiamenti in corso; dai drastici mutamenti di mentalità legati al decreto conciliare Ad gentes, che ha scelto di fondare biblicamente e teologicamente la missione e nel contempo di allargare a tutta la Chiesa il compito di fare missione, fino all’emergere di una cultura cosiddetta postmoderna.

Caratterizzata, quest’ultima, da un sistema di valori e credenze ben più profondi di quanto una prima superficiale osservazione possa far pensare: fra gli altri, alla rinfusa, un forte senso dello sviluppo storico delle idee e dei punti di vista; un’accettazione indiscussa della costruzione sociale della conoscenza e dell’influenza delle culture sulla comprensione; una chiara consapevolezza dell’immensità, diversità e misteriosità del mondo fisico e sociale; l’esaurimento delle metanarrazioni, le ideologie che sinora ci hanno descritto la realtà a tutto tondo.

In questo panorama, gli istituti missionari, e più complessivamente la missione della Chiesa, stano facendo i conti con la loro debolezza, con la loro crescente fragilità; e, contestualmente, con la necessità di annunciare e testi­moniare il Vangelo non nella potenza dei mezzi o dei sostegni di vario tipo, ma nell’estrema precarietà di una situazione di crisi sistemica costantemente in progress.

Insuperabile, al riguardo, la considerazione di due decenni or sono del vescovo di Poitiers, il francese Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, riferita a un giornalista che lo sollecitava a esprimersi su cosa la Chiesa avrebbe dovuto fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con parrhesia il proprio sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

Rileggere oggi la vicenda di Charles de Foucauld può aiutarci a entrare in sintonia con questo clima e a rimetterci in marcia, a dispetto di ogni oggettiva difficoltà. Sì, la fede cristiana, sulla scia del carisma del fratello universale, ci dovrebbe spingere oggi a prendere il largo, ad apprezzare il dono dell’incertezza e del mistero della creazione, nella consapevolezza che la missione è di Dio, sia pure limitata dai nostri umili tentativi di comprenderla e di viverla.

Perché, se si dà un punto fermo in questa stagione liquida, è che nulla nella missione e nell’annuncio evangelico sarà come prima, per cui i credenti sono sin d’ora chiamati a disporsi alla rottura e alla reinvenzione del messaggio cristiano, fino ad abbandonare definitivamente l’idea di un Dio onnipotente per abbracciare quella di un Dio che sta alla soglia dell’esistenza.

In altri termini, occorre dialogare per credere: risignificare il pluralismo, accettare il caos pur nella ricerca di un senso, nella convinzione che la verità non è un possesso; e che Dio – nel tempo segnato dall’incertezza, appunto – si dice nel movimento di impregnarsi, mescolarsi, donarsi, per ritrovare nell’altro le ragioni perdute dell’essere comunità e del tessere legami. Fratelli (e sorelle) tutti.

Ecco perché, a conti fatti, e a dispetto degli ancora troppi profeti di sventura (compagni ideali di quelli deprecati da Giovanni XXIII mentre introduceva, sessant’anni or sono, il concilio Vaticano II con la Gaudet Mater Ecclesia), questo cambiamento d’epoca non solo non dovrebbe mettere paura, ma potrà fare del bene al Vangelo e alla sua credibilità. Perché «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

  • BRUNETTO SALVARANIFino a farsi fratello di tutti, Charles de Foucauld e papa Francesco, Cittadella, Assisi 2022, pp. 184, € 14,90, ISBN 9788830818354.
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