Fra stalla, casa e chiesa: la mia vita nelle terre alte

Marzo libera il sol di prigionia. Da qualche anno aspetto la giornata giusta per poterlo dire e sorrido. Quando ero bimbo lo diceva mia nonna, sapeva di formula magica, poi per lungo tempo nessuna voce ha scandito il mutare delle stagioni; ha ricominciato mio zio nella sua vecchiaia e gliene sono riconoscente, ora tocca a me. C’è un modo di dire le cose che sembra accompagnarle nel loro farsi e riconosce in ogni manifestazione naturale una molteplicità di significati. Libertà da prigionia è innanzitutto possibilità e necessità d’operare contro l’inattività forzata.
Queste giornate più che a fine pena rimandano ad una solenne amnistia: di colpo è primavera. Chiazze di neve cumulata dalla tormenta sciolgono in minuti rivoli tentacolari mutando forma nel ritrarsi. Nell’immobilità del pomeriggio tutto è impercettibile movimento. Muovono le piante, pompano linfa e gonfiano le gemme. Muove la terra, sotto, e spuntano crochi ovunque; in pochi giorni sfumeranno di rosa e viola tutta la bassa valle. Una farfalla giallo psichedelico, tonalità acida, mi svolazza intorno zigzagante e sinuosa, corposa ed eterea, tanto improbabile quanto vera. I cavalli nella stalla fremono. Annusano l’aria, l’odorano, dilatano le froge, sbuffano; si rotolano a terra e si scuotono rialzandosi, manciate di pelo ovunque. Nitriti gioiosi come versetti di salmi a lode. Bisogna uscire incontro all’aria che porta primavera, è anche una lezione di cartografia: i boschi spogli permettono, dall’alto dei crinali, di leggere le valli come mappe. La stalla è, da sempre, mio rifugio; con casa e Chiesa compone la mia triade vitale ma ora s’è fatta fucina di talenti diventando fulcro di un’impresa che considero semina a propiziare una civiltà del vivere le terre alte. Qui cresce e si stabilizza un’idea di teatro che sperimenta con libretto d’Opera e relative partiture una messa in scena equestre; un’Accademia per uomini e cavalli che è processo educativo fondato su una disciplina quotidiana e un’autorevole gerarchia dove ogni risultato anche minimo costa fatica ed impegno ma è verificabile materialmente nel suo divenire.
Per un decennio, tra gli anni settanta ed ottanta, con sostanziosi finanziamenti pubblici si è cercato di portare le fabbriche in montagna ma non si fa economia industriale contro le leggi di mercato e ora che le industrie abbandonano anche il piano per delocalizzarsi in situazioni ben più convenienti è una via di sviluppo impraticabile. Impresa è una parola che ha ridotto la molteplicità dei suoi significati per diventare sinonimo di azienda, conserva un alone eroico in campo sportivo ma ha perso la quota di meraviglia che impastata col
tragico ne aveva fatto l’avventura dell’uomo alla scoperta del mondo. Coinvolgimento, accettazione del rischio, speranza oltre la logica acquiescente. Fare impresa non è garantirsi uno stipendio. Ho trovato due complici, Marcello e Cinzia, è cominciata la nostra impresa; non risolverà i problemi della montagna e deve ancora dimostrare la sua capacità di fare economia ma è capace, verificato, di commuovere i vecchi, incantare i bambini, far crescere perplessità e pensieri negli adulti. E’ una manifestazione di dignità collocata nel proprio spazio naturale. Investirvi energia, soldi, speranze significa riconoscere che all’origine del tracollo economico montano c’è una catastrofe culturale: non c’è onore, non c’è merito, non c’è senso nel vivere in alto; le cose importanti stanno sempre da un’altra parte, in basso. Oggi la nostra impresa si è rispecchiata nella gioia che solo la bellezza permette. E’ un dono, bisogna saperlo cogliere e sono molte le cose che devono essere fatte perché questo possa rendersi possibile.
di Giovanni Lindo Ferretti – avvenire