Festival biblico. «La sobrietà non è solo giusta, ma conviene»

Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano

Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano

Il cambiamento climatico non si ferma. E di sicuro non si ferma con i muri. «Possiamo anche illuderci di alzare una qualche forma di sbarramento nei confronti dei migranti in arrivo dall’Africa – avverte Grammenos Mastrojeni – ma questo non ci renderà affatto più graditi ai Paesi dell’Europa settentrionale. Quando sarà il momento, saranno loro a erigere muri contro di noi. A meno che non si cominci a ragionare in termini diversi, si capisce». Diplomatico e docente universitario, da almeno un quarto di secolo Mastrojeni analizza il rapporto tra crisi ambientale, instabilità politica e fragilità economica. Ha pubblicato molti libri sull’argomento (il più recente è Effetto serra, effetto guerra, scritto a quattro mani con il climatologo Antonello Pasini e pubblicato lo scorso anno da Chiarelettere), insistendo in particolare sulle opportunità offerte da una nuova visione dello sviluppo condiviso. “Per un futuro di ecologia integrale” è il titolo dell’intervento che lo studioso terrà domani alle ore 16,30 presso il Polo Universitario Santa Marta di Verona (via Cantarane 24) nell’ambito del Festival Biblico, che quest’anno mette a tema il futuro nelle sue varie declinazioni. «Il punto fondamentale – spiega Mastrojeni – è che per troppo tempo abbiamo considerato la tutela dell’ambiente come un limite per lo sviluppo economico. Ma è un errore, dal quale dipende una lunga serie di scelte sbagliate».

Perché?
«Perché è vero il contrario. Protezione dell’ambiente e sviluppo procedono di pari passo e interagiscono in modo positivo. L’essere umano non rappresenta un’entità priva di legami con il contesto naturale in cui vive e opera. Ce ne accorgiamo quando torniamo a prendere in considerazione quelle linee di condotta che, già presenti nei Vangeli, sono state assunte dai cristiani come esercizio di superamento di sé. Non si tratta solamente di precetti morali, ma di vere e proprie regole di massimizzazione del benessere».

Sta dicendo che la sobrietà conviene?
«È un principio molto semplice: l’accumulo di beni materiali determina uno squilibrio ai danni dell’ambiente, mentre una prospettiva di realizzazione integrale della persona umana porta ad assumere un atteggiamento protettivo verso l’ambiente stesso».

Che cosa ci impedisce di andare in questa direzione?
«Il sistema di misurazione della performance economica, in primo luogo. L’insistenza sul reddito a livello individuale e sul Pil a livello collettivo non fa che accentuare la diseguaglianza, introducendo gravi elementi di instabilità. Il quadro cambia completamente se integriamo nel conteggio i fattori presi in considerazione dagli indicatori economici più avanzati: la pace sociale, il tempo per la famiglia, la tutela della salute. In questo caso, la ricerca della sostenibilità spinge tutti, individui e nazioni, sul punto più alto della linea di produttività marginale».

Il suo è un auspicio?
«Con forti basi scientifiche: all’interno di un processo di coevoluzione, è del tutto normale che le condizioni più favorevoli siano quelle che proteggono il sistema nella sua interezza».

Quali sono le implicazioni geopolitiche di questo principio?
«Nella fase attuale il disagio ambientale interessa principalmente le società più fragili, con le ben note conseguenze in termini di conflitti e migrazioni forzate. A essere pregiudicata, però, è la speranza stessa di poter conservare un ambiente funzionale e produttivo per tutti. La tentazione, ora come ora, è di ritenere che gli squilibri climatici siano un problema che riguarda in modo pressoché esclusivo le nazioni più povere e che in quanto tale va gestito e contenuto. Non è così. Se vogliamo evitare che lo sconquasso raggiunga soglie insostenibili in sede globale, dobbiamo assumere una condotta più responsabile, che influisca favoreanzitutto volmente anche nelle aree più svantaggiate del pianeta. In gioco non c’è soltanto la solitudine alla quale verrebbero abbandonati i Paesi in via di sviluppo, ma la possibilità di avere un futuro ragionevole per l’intera umanità».

A partire dall’Europa?
«Dal punto di vista strettamente geografico, l’Europa è una finzione, dato che non esiste una sostanziale soluzione di continuità rispetto all’Asia. La peculiarità europea è semmai di natura climatica, perché sono le condizioni ambientali a fondare una comunità di interessi. La rivoluzione agricola ha preso le mosse da un territorio che, fino a questo momento, è stato soggetto all’anticiclone delle Azzorre. Ma oggi la situazione sta cambiando, in Europa è sempre più apprezzabile l’influsso dell’anticiclone subtropicale africano e da questo non può non nascere un diverso equilibrio geopolitico. Il nostro destino è sempre più legato a quello dei popoli del Sahara. L’Italia, nella fattispecie, è chiamata a svolgere una funzione di ponte, in modo da permettere all’Europa di elaborare un’economia davvero estroversa, capace di proiettarsi sull’altra sponda del Mediterraneo. L’instabilità dell’Africa, a questo punto, è un ostacolo allo sviluppo di tutta l’economia».

Quindi dobbiamo guardare più a sud?
«Non è così semplice. Il maggior rischio di destabilizzazione, infatti, non viene dal mare, ma dalla montagna. Lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya non configura solo un danno dal punto di vista paesaggistico, ma porta disordine in un sistema straordinariamente complesso. Un dissesto globale delle montagne comporterebbe l’esodo di oltre 900 milioni di persone, esattamente il doppio di quelle che sarebbero costrette a migrare in conseguenza di un drastico innalzamento delle acque marine».

C’è qualcosa che possiamo fare?
«Sì, smettere di pensare che la soluzione debba arrivare dalla politica. Non è questione di trattati internazionali più o meno impegnativi o efficaci. All’appello mancano piuttosto le persone comuni, che ancora non si sono persuase di quanto i comportamenti quotidiani svolgano un ruolo decisivo per le sorti del pianeta».

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