Fare o essere carità?

di: Maurizio Rossi

carità

La dimensione caritativa è tratto qualificante e irrinunciabile dell’agire cristiano. Lo spirito del cristianesimo ha originato lungo i secoli, con straordinaria vitalità, forme sempre nuove per declinare il gesto concreto del farsi prossimo. La duttilità di cui i cristiani hanno dato prova nel rendersi disponibili ad andare incontro alle sollecitazioni inedite innescate dai diversi contesti storici e dalle diverse situazioni ambientali, molto spesso si è espressa nella dimensione nascosta indicata dal capitolo 6 di Matteo («non sappia la tua sinistra…»).

Ma questa stessa duttilità, nel corso della storia, ha anche dato impulso, in modo visibilmente rilevante, ad esperienze di impatto decisivo per la promozione dello sviluppo umano e sociale. Basti solo pensare ai numerosi ordini religiosi, maschili e femminili, che nell’agire caritativo trovano radice e ispirazione.

Essere cristiani, dunque, prima e più che una professione di fede, è uno stile di vita capace di intrecciare con spirito largo la dimensione verticale e la dimensione orizzontale dell’esistenza, Dio e il prossimo. Benché secoli di guerre teologiche, combattute sul filo acuminato e violento delle definizioni, abbiano spesso sbriciolato l’essenza del cristianesimo in pillole ideologiche preconfezionate, Deus caritas est resta la vera cartina al tornasole di ogni esperienza di vita cristiana.

Un lessico interessante

Anche la parola carità, però, come tante altre parole del lessico cristiano, ha subìto, nel suo uso lungo i secoli, processi di trasformazione che mettono in luce mutamenti sostanziali nei paradigmi di riferimento: la carità, che nel Deus caritas est giovanneo (1Gv 4,16) è imprescindibilmente costitutiva al soggetto, si è vista spesso ridotta a mero oggetto dell’agire. E infatti carità è, per noi, fare la carità, più che essere carità. La differenza non è di poco conto. Il passaggio sintattico dalla funzione di soggetto alla funzione di oggetto ha comportato almeno due conseguenze significative.

In primo luogo, la parola carità si è trovata, suo malgrado, a subire delle procedure di esternalizzazione, in una sorta di outsourcing caritativo che, paradossalmente, proprio nella misura in cui individua strategie sempre più efficaci per manifestarsi, corre il rischio di sminuire e depotenziare l’iniziativa singolare: ai poveri e ai bisognosi, insomma, ci pensano i volontari della Caritas parrocchiale, con buona pace di tutti gli altri bravi cristiani.

La seconda conseguenza è bene espressa nell’esclamazione per carità!, che risolve in chiave ironica la disparità di posizioni tra chi per carità agisce e chi, invece, per carità viene aiutato: carità è diventata sinonimo di elemosina e, in quanto tale, è venuta a legarsi idealmente al movimento dall’alto verso il basso di chi depone la moneta nella mano protesa, appunto, a chiedere la carità. Disparità di posizioni, movimento dall’alto in basso, asimmetria e, dunque, assenza di reciprocità.

Nello statuto del cristiano

Ci si può porre una domanda: è possibile, e in che modo, riscoprire e vivere la carità come dimensione costitutiva irrinunciabile del cristianesimo, cioè come dimensione esistenziale di dono nel segno della reciprocità – secondo le programmatiche affermazioni del capitolo quarto della prima lettera di Giovanni?

È possibile, sì. E che lo sia è venuto a dircelo il tempo dell’emergenza sanitaria, mettendoci spalle al muro con la parola vulnerabilità. È arrivato un nemico invisibile e, con l’inconsistenza del nostro esistere, con la labilità del nostro peso specifico esistenziale, stiamo tutti – tutti – facendo i conti. Tutti ci sentiamo fragili, tutti ci sentiamo mortali. Tutti abbiamo paura. Tutti temiamo – per noi, e per le persone che amiamo. Vulnerabili. Fragili. Senza difese. Esposti. Poveri. Limitati. Bisognosi. Siamo noi, oggi, al tempo del coronavirus. Noi, non gli altri.

È arrivato un nemico invisibile, e senza chiederci il permesso ha iniziato a liberarci dalle incrostazioni dei nostri bisogni superficiali – quelli che ogni festa comandata ci invitavano nei centri commerciali a spingere carrelli riempiti di superfluo e che ogni estate ci facevano battere il cuore per vacanze da sogno in villaggi turistici sempre identici a se stessi, a qualsiasi latitudine e longitudine. Le incrostazioni che facevano di noi delle persone sature di bisogni perennemente replicabili, ma incapaci di sentire davvero bisogno. Adesso il povero che ha bisogno, che ha paura, che si trova in difficoltà, che rischia di morire – non è lontano, non è un altro. Siamo noi. Noi – disincrostati, faccia a faccia con il nostro nocciolo interiore, con il nostro bisogno esistenziale fondativo.

Fino a Covid-19 non erano molte le esperienze di vita che permettevano, a noi occidentali ingolfati dal superfluo, di conoscere il significato vero della parola bisogno. Il percepirsi come creature bisognose era affidato alla breve stagione dell’infanzia e al legame di dipendenza esclusiva dalla madre e dai genitori. A qualcuno, – fortunato o, forse più semplicemente, libero – era dato di conoscere nell’amore l’apertura totale, l’esposizione all’altro che, mettendo a nudo la propria vulnerabilità indifesa, permette di gridare “ho bisogno di te”. Per la maggior parte di noi – la vita si riduceva a bisogni da accendere e spegnere con una passata di mano sul touch screen.

Il bisogno e il bisognoso

Vale la pena, riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e rileggere quell’esperienza di fede sorgiva e di carità alla luce della esperienza di spoliazione, di bisogno, che oggi – anno 2020 – anche noi come cristiani stiamo attraversando.

Leggiamo al capitolo 2,45: «Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno». E al capitolo 4, 34-35: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno».

Per capire quale rapporto stringente leghi carità e bisogno diventa indispensabile precisare alcuni passaggi della traduzione. L’aggettivo bisognoso significa bisognoso nel senso di mancante, in difetto. Bisogno, in questa prospettiva, esprime l’idea di un deficit, di una privazione. Tanto nel capitolo 2 quanto nel capitolo 4, invece, il sostantivo bisogno – nell’espressione secondo il bisogno di ciascuno – traduce l’idea di vantaggio/guadagno, di uso/impiego e, appunto, di bisogno/necessità. Il bisogno si dà non come deficit, ma come relazione, come scambio vitale. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, scrive a proposito del concetto di reciprocità: «Il bisogno tiene uniti gli uomini»

L’uomo è per Aristotele un animale politico, sociale, e il collante primo della comunità è proprio il bisogno. Bisogno che ha in sé anche il proprio rovescio, il guadagno, e che, proprio per questo, può essere inteso come dono scambiato che garantisce la vita della comunità.

Questo tempo sospeso ci affida, come cristiani, la possibilità di riscoprire nella dimensione del bisogno la radice prima della carità. L’esistenza di ciascuno come luogo aperto, indifeso, fragile. Ricco della propria vulnerabilità. Accogliente in forza della mancanza di mezzi di difesa. Sul volto le mascherine, i guanti di lattice sulle mani, impediti come siamo nei nostri consueti spostamenti quotidiani, possiamo finalmente concedere libertà di circolazione alla Carità. Non la carità oggetto da fare, ma la Caritas soggetto che sempre ci interpella. Quella che nel volto dell’altro ci aiuta a vedere qualcosa/qualcuno che davvero, sempre, sempre di più, ci ri-guarda.

Deus caritas est. Caritas Deus est.

settimananews