Etica e biologia a confronto nella storia evolutiva dell’Homo Sapiens

Henry Rousseau, «L’incantatrice di serpenti» (1907, particolare )

Osservatore

A far del bene, che si guadagna? Domandare è lecito. E se la domanda è posta in ambito scientifico acquista anche un sapore nuovo: perché l’uomo è un animale sociale e altruista? A che pro? Qual è il vantaggio, dal punto di vista evolutivo? Non è meglio guardare al tornaconto personale, nella lotta di tutti contro tutti?

Rispondere è cortesia. E una risposta, a dire il vero, ha preso forma negli ultimi anni fra gli antropologi. Recita più o meno così: la cooperazione è il più potente strumento a disposizione della nostra specie. Non la dimensione del cervello, non l’uso degli attrezzi e senza dubbio non l’aggressività, ma il nostro atteggiamento verso l’altro ci ha resi quelli che siamo: la specie più abietta e la più premurosa, scimmie nude col nostro raro, sconcertante e buffo bagaglio di tendenze morali.

Ricordo mi stupirono molto le parole scelte dal filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani nel 2014 per il suo Evoluti e abbandonati : «La cultura, l’educazione, e soprattutto la storia — nella sua irriducibile unicità — contano. Queste ultime non sono dimensioni estranee alla biologia». Oggi alcune grandi domande che hanno attraversato la filosofia moderna, possono essere illuminate dalla ricerca scientifica.

Ad esempio, torniamo a bomba sulla questione: l’uomo è buono o cattivo per natura? Forse a qualcuno verrà in mente Jean Jacques Rousseau e il suo buon selvaggio, contaminato e corrotto dalla civiltà. O al contrario, perché no, Thomas Hobbes e il suo Leviatano, uno Stato capace di mantenere l’ordine e riscattare l’uomo dalla sua natura malvagia. Richard Wrangham, primatologo e antropologo dell’università di Harvard, nel suo ultimo lavoro — Il paradosso della bontà. La strana relazione tra convivenza e violenza nell’evoluzione umana   (Bollati Boringhieri, 2019) — in qualche modo riprende questa dicotomia filosofica e la lega a nostri “parenti” più o meno stretti: lo scimpanzé, il nostro cugino più stretto, e il bonobo che dello scimpanzé è la specie sorella. In questa radice evolutiva il buon selvaggio è il bonobo (lo scimpanzé più piccolo) che nel suo percorso evolutivo si è separato dallo scimpanzé maggiore sviluppando caratteristiche di maggiore “pro socialità”, come dicono i primatologi. La specie è insomma diventata meno aggressiva.

I bonobo utilizzano la sessualità come modulatore dell’aggressività nei rapporti fra individui all’interno del gruppo, le femmine adulte controllano e sanzionano chi non collabora. Secondo Wrangham abbiamo preso molto dai bonobo. Entrambi abbiamo la cosiddetta sindrome da domesticazione, ovvero ci siamo addomesticati da soli. La human self-domestication  è un’idea cui anche Charles Darwin (e Johann Friedrich Blumenbach prima di lui) ha lavorato ipotizzando che l’evoluzione dell’uomo moderno contempli un processo simile a quello della domesticazione del gatto, del cane o del cavallo.

Darwin aveva notato come queste specie presentino caratteristiche uniche: orecchie pendule, pelo maculato, riduzione della corporatura e della differenza fra maschi e femmine. Anche noi umani rientriamo in questa descrizione con il nostro viso addolcito, la faccia piatta, il fatto che manteniamo i caratteri giovanili per più tempo. Bene, la scienza ha iniziato a produrre le prove di questa auto-domesticazione: uno studio italiano pubblicato nel dicembre 2019 su «Science Advances», e che porta la firma dei ricercatori dell’Istituto europeo di oncologia e dell’università Statale di Milano, ha aperto una nuova prospettiva sull’evoluzione umana grazie alla scoperta del gene Baz1b. Un gene che regola l’attività di decine e decine di geni responsabili delle fattezze del volto umano e dei suoi atteggiamenti sociali. Un gene assente nei Neanderthal o nei Denisoviani.
Come per i bonobo, i Sapiens  hanno sviluppato nel corso del tempo una selezione inconsapevole di individui, in particolare maschi, meno aggressivi e mansueti. Coloro che si sono dimostrati più propensi a difendere il gruppo, a cooperare con il gruppo, hanno avuto la meglio. In Europa esistono molti siti che sono stati studiati a fondo e che offrono indizi sulle caratteristiche comportamentali dei Neanderthal. Forse la capacità di apprendimento sociale e di cooperazione dei Neanderthal è stata ostacolata dal loro reagire in maniera aggressiva di fronte alle tensioni.

Non dimentichiamo però che la predisposizione dei Sapiens  alla cooperazione è legata a filo doppio con la nostra natura aggressiva. E per Richard Wrangham, questa natura violenta è da ricollegare ancora una volta alla nostra radice evolutiva, quella degli scimpanzé. Scimpanzé che presentano dinamiche sociali complesse, dove c’è una maggiore componente di aggressività, dove gli individui sono suddivisi in gruppi con alta conflittualità interna ed esterna al gruppo stesso. Una forma di aggressività istintiva che, secondo Wrangham, i Sapiens  hanno rimodulato in violenza fredda, intenzionale, pianificata. Una violenza “incanalata” a sanzionare chi non collabora col gruppo.

E qui Wrangham si spinge oltre, formulando una tesi controversa e provocatoria: la sanzione che avrebbe fatto la differenza nella storia umana sarebbe l’uccisione del deviante. L’allontanamento o la soppressione degli individui antisociali, dei maschi troppo aggressivi. È l’ipotesi dell’esecuzione. Wrangham rilegge in chiave evolutiva il ruolo della pena di morte, della guerra, della violenza con cui facciamo i conti anche oggi giorno: il paradosso della bontà, tendiamo a essere buoni con chi appartiene al nostro stesso gruppo sociale e manifestiamo un alto tasso di aggressività (fisica e verbale, mi viene naturale pensare ai social e al fenomeno dell’hate speech ) con chi non riconosciamo come membro del gruppo.

Siamo il dottor Jekyll e il signor Hyde, scrive Wrangham. E questa profonda ambivalenza non ci fa essere né buoni né cattivi.

«Si apre uno spazio per la libertà individuale, uno spazio per la responsabilità individuale» ha chiosato Telmo Pievani. «Se l’uomo ha un retaggio evolutivo così ambivalente vuol dire che, poi, il fatto di comportarsi bene o male rispetto agli altri, e rispetto alla società, è una scelta che dipende anche da molti altri fattori: culturali, ambientali, individuali. L’evoluzione biologica e culturale sono strettamente intrecciate nella storia umana».

È questo a renderci unici nel grande albero della vita? Accidenti. Un’altra domanda.

di Davide Coero Borga