Esegesi – XXVIII Domenica del T. O. – Anno C 13 Ottobre

Da: “Lectio Divina sui Vangeli festivi” A. Cilia. ©Elledici

Esegesi del brano Lc 17, 11-19

Il contesto

Questo brano pone i nostri passi nella terza tappa del cammino che Gesù sta compiendo verso Gerusalemme; la meta ormai è vicina e il maestro chiama con ancora maggior intensità i suoi discepoli, cioè noi, a seguirlo, fino ad entrare con lui nella città santa, nel mistero della salvezza, dell’amore.
Il passaggio si compie solo attraverso la fede, alimentata da una preghiera intensa, incessante, insistente, fiduciosa; lo vediamo ripercorrendo i capitoli che precedono e seguono questo racconto (17,6; 17,19; 18,7-8; 18,42).
Queste parole ci invitano a identificarci con i lebbrosi, che diventano bambini (cf Lc 18,15-17) e con il ricco che si converte e accoglie la salvezza nella sua casa (Lc 18,18ss); se le accogliamo veramente e le custodiamo in modo tale da metterle in pratica, potremo finalmente arrivare anche noi a Gerico (19,1) e di lì cominciare a salire con Gesù (19,28), fino all’abbraccio gioioso col Padre.

La struttura del testo

  • Lc 17,11: Gesù è in cammino e attraversa la Samaria e la Galilea; si avvicina piano a Gerusalemme, nulla Egli lascia di non visitato, non toccato dal suo sguardo d’amore e di misericordia.
  • Lc 17,12-14a: Gesù entra in un villaggio, che non ha nome, perché è il luogo, è la vita di tutti e qui incontra i dieci lebbrosi, uomini malati, già intaccati dalla morte, esclusi e lontani, emarginati e disprezzati. Subito Egli accoglie la loro preghiera, che è un grido del cuore e li invita ad entrare in Gerusalemme, a non stare più a distanza, ma a raggiungere il cuore della Città santa, il tempio, i sacerdoti. Li invita al ritorno alla casa del Padre.
  • Lc 17,14b: Non appena ha inizio il santo viaggio verso Gerusalemme, i dieci lebbrosi vengono risanati, diventano uomini nuovi.
  • Lc 17,15-16: Ma uno solo di loro torna indietro per rendere grazie a Gesù: sembra quasi di vederlo correre e saltare di gioia. Loda Dio a gran voce, si prostra in adorazione e fa eucaristia.
  • Lc 17,17-19: Gesù constata che, da dieci, uno solo è tornato, un Samaritano, uno che non apparteneva al popolo eletto: la salvezza, infatti, è per tutti, anche per i lontani, gli stranieri. Nessuno è escluso dall’amore del Padre, che salva grazie alla fede.

Approfondisco alcuni termini

Durante il viaggio

Con il suo bel greco, Luca ci dice che Gesù sta continuando il suo viaggio verso Gerusalemme e utilizza un verbo molto bello e intenso, anche se comune e usatissimo. Solo in questa breve pericope torna per tre volte:
v. 11: nel viaggiare
v. 14: andate
v. 19. va’.
È un verbo di movimento molto forte, che esprime pienamente tutte le dinamiche proprie del viaggio; potremmo tradurlo con tutte queste sfumature: vado, mi reco, parto, mi porto da un luogo a un altro, percorro, vado dietro. In più c’è dentro il significato dell’attraversamento, del guadare, dell’andare al di là, superando gli ostacoli. È Gesù il grande viaggiatore, il pellegrino instancabile: Lui per primo ha lasciato la sua dimora, nel seno del Padre, ed è sceso fino a noi, compiendo l’esodo eterno della nostra salvezza e liberazione. Lui conosce ogni via, ogni percorso dell’esperienza umana; nessun tratto di strada rimane nascosto o impercorribile per lui. Per questo può invitare anche noi a camminare, a muoverci, ad attraversare, a porci in una situazione continua di esodo. Perché anche noi possiamo finalmente tornare, insieme a lui, e andare da questo mondo al Padre.

Entrando in un villaggio

Gesù passa, attraversa, percorre, si muove e ci raggiunge; a volte, poi, decide di entrare, fermandosi più a lungo. Come avviene in questo racconto. Luca si sofferma su questo particolare e scrive che Gesù entrò in un villaggio. L’entrare, in senso biblico, è una penetrazione, è l’ingresso nel profondo, che implica condivisione e partecipazione. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un verbo molto comune e molto usato; solo nel vangelo di Luca ricorre tantissime volte e disegna chiaramente l’intenzione di Gesù di farsi vicino, farsi amico e amante. Lui non disdegna nessun ingresso, nessuna comunione. Entra nella casa di Simone il lebbroso (4,38), nella casa del fariseo (7,36 e 11,37), poi nella casa del capo della sinagoga (8,51) e di Zaccheo il pubblicano (19,7). Entra continuamente nella storia dell’uomo e partecipa, mangia insieme, soffre, piange e gioisce, condividendo ogni cosa. Basta aprirgli, come dice lui stesso (Ap 3,20) e lasciarlo entrare, perché rimanga (Lc 24,29).

Dieci lebbrosi

Mi chiedo cosa significhi veramente questa condizione umana, questa malattia che si chiama lebbra. Parto dal testo stesso della Scrittura che descrive lo statuto per il lebbroso in Israele. Dice così: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,45-46). Dunque comprendo che il lebbroso è una persona colpita, ferita, percossa: qualcosa lo ha raggiunto con violenza, con forza e ha lasciato un segno di dolore, una ferita. È una persona in lutto, in grande dolore, come dimostrano le sue vesti stracciate e il capo scoperto; è uno che deve coprirsi la bocca, perché non ha diritto di parlare, né quasi più di respirare in mezzo agli altri: è come un morto. È uno che non può rendere culto a Dio, non può entrare nel tempio, né toccare le cose sante. È una persona piagata profondamente, un emarginato, un escluso, uno lasciato in disparte, in solitudine. Per tutto questo i dieci lebbrosi che vanno incontro a Gesù, si fermano a distanza e solo da lontano gli parlano, gridandogli il loro dolore, la loro disperazione.

Gesù maestro!

È bellissima questa esclamazione dei lebbrosi, questa preghiera. Innanzi tutto chiamano il Signore per nome, come si fa con gli amici. Sembra che si conoscano da tempo, che sappiano gli uni dell’altro, che si siano già incontrati a livello del cuore. Questi lebbrosi sono già stati ammessi al banchetto dell’intimità con Gesù, alla festa di nozze della salvezza. Dopo di loro solo il cieco di Gerico (Lc 18,38) e il
ladrone sulla croce (Lc 23,42) ripeteranno questa invocazione con la stessa familiarità, lo stesso amore: Gesù! Solo chi si riconosce malato, bisognoso, povero, malfattore, diventa prediletto di Dio. Poi lo chiamano «maestro», con un termine che significa più propriamente «colui che sta in alto» e che ritroviamo sulla bocca di Pietro, quando, sulla barca, fu chiamato da Gesù a seguirlo (Lc 5,8) e lui si riconosce peccatore. E qui siamo al cuore della verità, qui è svelato il mistero della lebbra, quale malattia dell’anima: essa è il peccato, è la lontananza da Dio, la mancanza di amicizia, di comunione con Lui. Questo fa disseccare l’anima nostra e la fa morire pian piano.

Tornò indietro

Non è un semplice movimento fisico, un cambiamento di direzione e di marcia, ma piuttosto un vero e proprio rivolgimento interiore, profondo. «Tornare» è il verbo della conversione, del ritorno a Dio. È il cambiare qualcosa in un’altra cosa (Ap 11,6); è il tornare a casa (Lc 1,56; 2,43), dopo essersi allontanati, come ha fatto il figlio prodigo, perso nel peccato. Così fa questo lebbroso: cambia la sua malattia in benedizione, la sua estraneità e lontananza da Dio in amicizia, in rapporto di intimità, come tra padre e figlio. Cambia, perché si lascia cambiare da Gesù stesso, si lascia raggiungere dal suo amore.

Per ringraziarlo

Bellissimo questo verbo, in tutte le lingue, ma in modo particolare in greco, perché porta in sé il significato di eucaristia. Sì, è proprio così: il lebbroso «fa eucaristia»! Si siede alla mensa della misericordia, dove Gesù si è lasciato ferire e piagare ancor prima di lui; dove è diventato il maledetto, l’escluso, il buttato fuori dell’accampamento per raccogliere tutti noi nel suo cuore. Riceve il pane e il vino dell’amore gratuito, della salvezza, del perdono, della vita nuova; finalmente può entrare di nuovo nel tempio e partecipare alla liturgia, al culto. Finalmente può pregare, avvicinandosi a Dio in piena fiducia. Non ha più le vesti stracciate, ma l’abito da festa, la veste nuziale; ha i calzari ai piedi e l’anello al dito. Non deve più coprirsi la bocca, ma può ormai cantare e lodare Dio, può sorridere e parlare apertamente; può avvicinarsi a Gesù e baciarlo, come un amico fa con l’amico. La festa è piena, la gioia traboccante.

Alzati e va’!

È l’invito di Gesù, del Signore. Alzati, cioè «Risorgi!». È la vita nuova dopo la morte, il giorno dopo la notte. Anche per Saulo, sulla via di Damasco, è risuonato questo invito, questo comando d’amore: «Risorgi!» (At 22,10.16) ed è nato di nuovo, dal grembo dello Spirito Santo; è tornato a vedere, ha ricominciato a mangiare, ha ricevuto il battesimo e il nome nuovo. La sua lebbra era scomparsa.

La tua fede ti ha salvato

Rileggo questa espressione di Gesù, la ascolto nei suoi dialoghi con le persone che incontra, con la peccatrice, l’emorroissa, il cieco…
– Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E in quell’istante la donna guarì (Mt 9,22; Lc 8,48).
– E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada (Mc 10,52).
– Egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace» (Lc 7,50).
– E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (Lc 18,42).
Allora prego, insieme agli apostoli e dico anch’io: «Signore, accresci la mia fede!» (cf Lc 17,6); «Aiuta la mia incredulità!» (Mc 9,24).

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