Il dono è una delle forme più alte della libertà degli umani. È quindi esperienza tragica. La visita dei magi, narrata dal Vangelo di Matteo, contiene molti elementi della grammatica del dono. Quei saggi sono chiamati da Matteo magoi, una espressione che probabilmente indicava sacerdoti dello Zoroastrismo. Uomini saggi, astronomi e astrologi, venuti da est e da un mondo mitico del passato ma ancora ben presente alla cultura biblica e quindi all’evangelista. Non erano pastori, erano esperti di stelle e di scienza. È bella questa presenza della sapienza e della scienza nel presepe, una benedizione necessaria in questo tempo di crisi; come è anche bello vedere uomini, maschi che sono capaci di fare doni: maschio è Erode, maschi sono i magi, ieri e oggi.
Sapienti venuti da oriente, probabilmente dalla Persia,
l’Iran di oggi, nel pellegrinaggio più bello. Non adoravano lo stesso
Dio dell’evangelista. Qualcuno li chiamerebbe semplicemente idolatri,
troppo vicini ai maghi e agli indovini egiziani, assiri e babilonesi
tanto combattuti dalla Bibbia. E invece Matteo, all’inizio del suo
Vangelo mette la visita di questi ospiti e amici benedicenti venuti da
lontano a portare dei doni, a onorare il bambino. Non basta
credere in altri dèi per essere nemici della fede biblica. I primi
avversari dei profeti e del popolo d’Israele sono stati i falsi profeti,
che credevano e adoravano lo stesso YHWH, che conoscevano perfettamente
la Legge e la citavano a memoria. La visita dei magi ci dice allora che
Dio resta vero e unico anche se ognuno lo chiama con un nome diverso.
Non siamo i padroni del nome di Dio, che è sempre più grande e plurale
dei nostri tentativi vani di imprigionarlo dentro la nostra religione. E
ci ricorda, insieme al Samaritano, un altro grande “viaggiatore” dei
Vangeli, che il prossimo non è il vicino: i magi furono prossimi del bambino pur essendo, per molte ragioni, lontani.
Quegli
uomini si misero in cammino verso occidente, inseguendo «una stella»,
per «adorare» un bambino, che sanno essere «il re dei giudei» (Mt 2,2).
Ecco i primi due elementi di questa speciale grammatica del dono: c’è un cammino e c’è una stella. Cammino dice impegno e dice tempo, gli ingredienti fondamentali di ogni vero dono. Non accettiamo e non gradiamo un dono che sappiamo essere riciclato proprio perché mancano impegno e tempo. I regali non richiedono molto tempo, ne facciamo molti in poche ore; il dono no, è diverso. Non c’è dono senza un cammino, senza un viaggio materiale o spirituale. Ci si alza, si va a trovare quella persona che abbiamo deciso di onorare con la nostra visita e con il nostro dono. Quasi tutto quello che volevamo dire a quella persona lo diciamo andandola a trovare: è il corpo in movimento a dirle le cose più importanti. Il dono, l’oggetto che possiamo portare, è segno, sacramento che esplicita e rafforza quanto avevamo già detto con la nostra visita, con il nostro camminare. Il primo dono dei magi fu il loro mettersi in cammino. Altre volte i viaggi sono solo spirituali, come quando vogliamo (e dobbiamo) scrivere il biglietto che accompagna il nostro dono, e viaggiamo indietro e avanti nel tempo in cerca di quelle parole che nascono solo se diamo loro il tempo di fiorire nella nostra anima, viaggiando dentro in compagnia di chi stiamo per onorare con il nostro dono.
Poi
c’è la stella. Nei doni, di certo in quelli più importanti, non si parte
senza l’apparizione di una “stella” – senza una voce, un segno, una
convocazione. Ci si mette in cammino perché qualcuno o qualcosa ci
chiama dentro – qualche volta è un grido. Ecco perché ognuno di noi sa
riconoscere quei pochi doni che ha ricevuto nella vita perché qualcuno
ha seguito, per lui/lei, una stella. Il primo dono (la vita) è arrivato
quasi sempre così, perché due persone hanno visto e seguito la stella
dell’altra. Ciò che siamo oggi dipende da molte cose, ma dipende
soprattutto dai doni-stella che abbiamo ricevuto.
Il Vangelo ci dice
che poi i magi, una volta giunti dal bambino, «al vedere la stella,
provarono una gioia grandissima» (2,10). È la gioia la tipica reciprocità
di questi doni, una gioia speciale e grandissima che conosciamo solo se
e quando facciamo i doni-stella. Sembrano doni unilaterali, ma non è
vero, perché questa “gioia grandissima” è una forma essenziale di
reciprocità. Persino più grande di quella narrata dal Vangelo (apocrifo)
arabo dell’infanzia di Gesù, secondo il quale «Maria donò loro alcune
delle fasce del bambino Gesù».
Nel racconto di Matteo, il primo
incontro che i magi fanno a Gerusalemme è con Erode. Il re, turbato,
raccoglie informazioni su questo ipotetico nuovo re-bambino, fa chiamare
i magi e dice loro: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e,
quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad
adorarlo» (2,8). Perché anch’io venga ad adorarlo. Sulla terra
continuano a convivere, una accanto all’altra, l’adorazione dei magi e
quella di Erode. Visite a bambini per celebrare la vita, altre “visite”
per celebrare la morte. E la terra continua a vivere finché le visite
dei magi saranno più numerose di quelle di Erode.
L’annuncio dei
magi a Erode produce, inintenzionalmente, la prima morte del Nuovo
Testamento: la strage degli innocenti. I magi sono ricordati per i loro
doni; ma sono ricordati anche per la strage di Erode. Questo ci dice
subito qualcosa di decisivo, che attraverserà tutti i Vangeli, Paolo e
l’umanesimo cristiano: il dono confina con la morte. Questa vicinanza si
esprime in molti modi, e non tutti belli. Ci sono doni che producono
morte perché sono velenosi (gift), perché sotto l’involucro
luccicante c’è solo volontà di controllo e manifestazione di forza e di
potere. Sono i doni mortiferi dei mafiosi, dei re e dei faraoni che
usano i doni/regali per segnare la distanza, per dirci che sono
proprietari dei loro regali e di noi. Ma nello sfiorarsi di morte e
dono, in questa prossimità di dòro e thànatos, ci sono
anche altre parole. Il dono è ambivalente, perché se non fosse
ambivalente non sarebbe una delle parole più belle e alte che possiamo
pensare e pronunciare sotto il sole.
Chi conosce il dono buono,
quello che nasce dalla nostra irrinunciabile vocazione alla gratuità,
sa che il dono lambisce la ferita e la morte perché si colloca al centro
della vita nostra e di quella degli altri, cominciando con il primo
dono e finendo con l’ultimo, quando in quell’”eccomi” dono e morte
saranno una parola sola. Il dono nasce e opera sul confine tra due e più
vite, e per questo ha la capacità di incidere la vita, di essere
efficace. È come la parola: crea, cambia, segna, insegna, ferisce – cosa
può ferirci di più di un dono rifiutato e calpestato?
La Bibbia
conosce molto l’ambivalenza del dono, e anche per questo ne parla poco, e
quando ne parla (Isaia) lo fa quasi sempre per metterci in guardia nei
confronti dei doni/regali velenosi senza gratuità. Ma soprattutto ce ne
parla facendo iniziare il racconto della storia umana con il dono di
Caino non gradito da Dio-Elohim, un dono rifiutato che produsse il primo
omicidio-fratricidio del mondo. Erode è l’anti-dono, il nuovo Caino,
colui che non sa “adorare” e non sa donare. I magi sono come Abele, il
fratello mite che sapeva fare i doni, che si mise in cammino verso i
campi, e il cui sangue bagna la terra della Buona Novella, e Dio
continua a sentire il suo odore.
I magi portano in dono «oro,
incenso e mirra» (2,11). Per dire regalità (oro), divinità (incenso), e
corporeità (mirra). La grammatica e la sintassi del dono continua a
svelarsi. In ogni incontro che nasce dal dono, ti dico che hai la
dignità di un re, che sei sacro come un dio, e che sei un essere umano, e
quindi il tuo limite e la tua futura morte non sono maledizione e
condanna, ma compito e destino. Questi sono gli accidenti che solo
insieme fanno la sostanza del dono, che consiste nell’onorare.
«Entrati
nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo
adorarono» (2,11). C’è anche Maria nel dono dei magi, una sorpresa e una
gioia aggiunte alla loro gioia che era già grandissima. E in Maria
possiamo rivedere un’altra amica biblica dei magi: la regina di Saba,
che partì da lontano, con molti doni, per conoscere e onorare la
sapienza. Il dono dei magi è un altro Magnificat dei Vangeli, e
la visita di Maria ad Elisabetta è l’episodio che più gli assomiglia.
Maria accolse con fiducia i magi dentro casa, li fece entrare, li
riconobbe come ospiti buoni, accettò il dono.
E infine, anche i magi, come Maria con Elisabetta, dopo aver fatto il loro dono presero la via di casa. È questa l’ultima nota dell’arte del dono, che non si chiude con la sua accettazione, ma col ripartire. Chi conosce quest’arte perché l’ha appresa per tutta la vita, sa che «fare ritorno a casa» è il capolavoro del dono, perché dice castità, una parola essenziale in ogni dono, sorella gemella della gratuità. Chi sa donare non occupa spazi, li libera. È discreto. Parte in fretta, sa stare senza fretta, in fretta riparte. Non si appropria del tempo della reciprocità. E porta via con sé solo quella “grandissima gioia”.
da Avvenire