Emergenza educativa:"sentire i figli"

Le capacità educative della famiglia sono molto indebolite. Essa perde le sfide del consumismo, dei videogiochi, web, telefonini… 

L’odierna devianza giovanile – bullismo e altre forme di violenza; spinelli, droghe e alcol; sballo in discoteca e conseguenti stragi al rientro –, riguardante personalità ancora in formazione, suscita nell’attento osservatore l’interrogativo: dove ha sbagliato la generazione precedente nell’opera educativa? E “che fare” per rimediarvi? A ben guardare, nella società/cultura postmoderna è ormai dominante un comportamento orientato alla massima fruizione possibile dei beni e piaceri in genere, e lo slogan “proibito proibire” ha spazzato via la pur ipocrita morale borghese.

E così tv, cinema e letteratura favoriscono quel sesso indiscriminato e promiscuo che, nel ’68, si espresse negli slogan tipo “la fantasia al potere”, “non fate la guerra ma fate l’amore”, “l’utero è mio e me lo gestisco io”. E benché molti dei giovani, attivi nel ’68, da incendiari siano diventati pompieri – facendo anche carriera nelle istituzioni di quella società che volevano bruciare –, una volta genitori non riuscirono (salvo lodevoli eccezioni) a bloccare quella deriva che loro stessi avevano incautamente provocato e della quale ora constatavano amaramente gli effetti nei figli. Inevitabile quindi l’odierna crisi della famiglia – e in essa del principio-autorità, verificatasi nell’ultimo mezzo secolo –, col triste sbocco nel disagio giovanile(1).

La capacità educativa della famiglia – ma anche delle altre agenzie formative tradizionali (scuola e Chiesa/parrocchia) – è oggi molto indebolita e ogni giorno perde terreno di fronte a seduzioni tipo: consumismo esasperato, videogiochi (anche violenti), uso incontrollato del web e, non ultimo, quello dei telefonini, che consentono usi ben diversi rispetto alla conversazione. Con questa aggravante: la crisi della famiglia (e della scuola e Chiesa/parrocchia) è accentuata dall’esaltazione che oggi i media generalmente fanno di comportamenti anomali. Se poi ricordiamo che l’influsso dei media sui comportanti è doppio rispetto a quello delle tre agenzie educative classiche messe insieme, le previsioni non sono rosee. Tanto più che tale deriva non sembra essere presa in considerazione neppure a livello europeo, visto che i governi del vecchio continente, generalmente parlando, hanno tacitamente accettato «il collasso ontologico dell’essere»: un’ideologia che negando la positività dell’essere – o, meglio, asserendo che l’essere in sé non è né bene né male – sfocia in un relativismo degradante a livello sociale in genere e della famiglia (e formazione delle nuove generazioni) in specie.

L’emergenza educativa preoccupa quanti hanno scienza e coscienza, che tuttavia brancolano sul “che fare”. Un brancolamento che affligge i migliori genitori e formatori spiazzati, tra l’altro, da questo test emblematico: le diverse, successive coalizioni governative non pare avvertano tale emergenza. Tant’è vero che se il governo Prodi ha fatto quasi niente per fronteggiarla, il governo Berlusconi non spicca nel fare di più. In questa drammatica situazione almeno una voce s’è levata forte e decisa: quella della Chiesa “esperta in umanità”. La Cei infatti ha messo al centro dei suoi Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 proprio l’emergenza educativa, mentre secondo alcuni vaticanisti tale sfida educativa potrebbe essere il tema del prossimo Sinodo generale dei vescovi(2).

(foto Censi).

Una prima differenza tra i ragazzi d’oggi e i loro nonni – nati prima o durante la seconda guerra mondiale –, è che i nonni sperimentarono una tragedia di proporzioni immani e le sfide della ricostruzione, formandosi in un clima necessariamente austero ma positivo, capace di ricostruire il tessuto sconvolto dalla guerra. Quei nonni infatti erano animati da una speranza che oggi pare eclissata: quella di un futuro migliore, grazie proprio alla ricuperata democrazia e al loro duro lavoro. L’impegno degli italiani negli anni 1945-65, supportato proprio dalla compattezza familiare, ha dato luogo al cosiddetto boom o “miracolo economico”, che ha generato un benessere diffuso e prima sconosciuto, ma insieme ha favorito una serie di guai: in primis quell’umanissima ma antieducativa brama dei genitori di procurare ai figli, e senza alcun impegno, quanto loro non ebbero.

Varie inchieste e analisi studiano questo gap generazionale tentando di comprenderlo, ma spesso le conclusioni divergono: perciò stesso rivelando quanto siamo impreparati a fronteggiare questi mutamenti. Per esempio, alcuni studiosi evidenziano che negli adolescenti la ricerca dell’identità e la crisi nei rapporti con l’adulto diventa spesso insicurezza e arduo rapporto con i tempi della vita. E se il futuro risulta loro oscuro e minaccioso, il presente è considerato quasi solo per riempirlo di soddisfazioni materiali e indotte artificialmente(3). E benché altri studiosi ritengano che tali analisi non rappresentino l’odierna identità adolescenziale – avendo sotto gli occhi esempi di ragazzi seri, determinati, generosi, che accettano fiduciosamente il progetto educativo degli adulti, specie nell’ambito del volontariato –, prevale il trend socioculturale (e massmediale) degli adolescenti come “possibili consumatori”, innescando la ricerca di sempre nuovi beni di consumo. Emblematico il fenomeno della tossicodipendenza, spesso intrecciato con bullismo e violenza(4).

Posti tali inquietanti orizzonti, con relative situazioni d’emergenza, urge la domanda: “che fare” per almeno “ridurre il danno”? Memori che l’adolescenza è una fase della vita esposta a molteplici, intrinseci rischi, bisogna dare gli strumenti necessari per affrontare quelle sfide e uscirne vincenti. Alessandro Padovani, che dirige il Centro polifunzionale per la riabilitazione integrata, dell’Istituto don Calabria di Verona, ritiene fondamentale un approccio basato sul non punire ma riparare. I giovani infatti, nonostante tutto, anche oggi hanno un forte motore riparatorio che fa loro comprendere l’errore commesso e innesca la voglia di riparare.

Perciò gli adulti – in primis i genitori – devono offrire loro adeguate possibilità, valorizzando quel motore proprio chiedendo loro di dimostrare – in primis a sé stessi – di saper fare tesoro anche delle esperienze negative. Bisogna quindi instillare nei giovani la capacità preventiva, ossia l’abilità di scegliere per contrastare l’effetto gregge o branco: cioè la tendenza ad avere tutti le stesse cose, la maglietta e lo zainetto “griffati”, il motorino(5). La soluzione del problema deve quindi rintracciarsi nella prevenzione: strada difficile, che richiede fantasia e impegno di genitori (famiglia), educatori (scuola), ma anche l’appoggio delle figure che riscuotono maggiore credito presso i giovani: campioni sportivi, divi del rock e della tv, ecc.

I genitori devono ritrovare tempo e voglia di ascoltare i figli, per sentirsi a loro agio in famiglia e, conseguentemente, scoprire valori e potenzialità spesso latenti. Il tutto però senza autoritarismo né rampogne, bensì con l’autorevolezza fondata tanto sull’esempio, quanto sull’ascolto e il calore umano. L’educazione infatti è anzitutto “cosa del cuore” (come diceva san Giovanni Bosco, patrono della gioventù) e richiede soprattutto una “presenza”: tanto affettuosa quanto ferma e decisa.

Impegno ben arduo, dato che richiede ai genitori non solo di ascoltare i ragazzi, ma di guardarli: interpretandone le espressioni del viso, gli atteggiamenti, le omissioni e i silenzi. Tutte forme di un linguaggio che va colto e interpretato, dato che proprio attraverso quel linguaggio criptico i figli spesso cercano di dire quanto non osano esprimere, ma che i genitori (e ogni vero formatore) non vorrebbero sapere. E invece bisogna vincere questa ritrosia, pena il non correggere comportamenti sbagliati e in tal modo riuscire a mettere sul giusto binario l’adolescente che traligna. Ma quanti genitori, oppressi da ritmi di lavoro stressanti, cui spesso s’aggiunge la doverosa cura dei propri genitori anziani, sono in grado di osservare così attentamente i loro figli?

L’emergenza educativa che stiamo vivendo dà ragione al grande Indro Montanelli il quale, richiesto da un lettore sul perché non avesse voluto figli, rispose: «Che educazione avrei potuto dare a mio figlio, se avessi trovato il tempo di dargliene una? [dato che per lui il giornalismo era una “passione esclusiva e divorante”]. Certamente avrei cercato di infondergli il rispetto dei valori nei quali io stesso sono stato allevato e mi sono fatto uomo. E, in tal caso, delle due l’una: o ci sarei riuscito, e in tal caso avrei fatto di lui uno spostato perché i valori nei quali sono stato educato io, e sui quali poggiano tutte le mie regole morali, sono ormai fuori corso e costituiscono, per chi le segue, soltanto un impaccio. O non ci sarei riuscito, e in tal caso di mio figlio avrei fatto, nella migliore delle ipotesi, un estraneo; nella peggiore, un nemico» (cf CorSera, 23.1.2000). (vita pastorale gennaio 2010)