Ellis Island, i nostri avi, l’immigrazione di oggi, le tante fake news e quella frase di San Pio da Pietrelcina che ci invita a far vincere sempre l’amore sulla paura

(a cura Redazione “Il sismografo”)

(Damiano Serpi – ©copyright) Ellis Island. Tutti in Italia dovrebbero sapere cosa avveniva in un passato non tanto remoto in quella piccola isola artificiale posta alla foce del fiume Hudson nella Baia di New York e a un tiro di schioppo dalla famosissima Statua della Libertà. Dovrebbero saperlo per prima i politici che ci governano o bramano di farlo, i nostri concittadini che oggi si sentono in diritto di etichettare il fenomeno immigrazione senza conoscere nulla della storia più o meno recente del fenomeno, i nostri ragazzi che sui banchi di scuola studiano tante cose ma  non ciò che sconvolse la vita a tanti loro lontani parenti. In quell’isoletta, realizzata con il materiale di risulta derivante dagli scavi effettuati per costruire la metropolitana della città della Grande Mela, dal 1892 al 1954 sbarcarono, infatti, quasi tutti gli immigrati europei che avevano deciso di cercare e trovare fortuna negli Stati Uniti d’America. Oltre 12 milioni di persone giunsero sul molo di quella minuscola piattaforma a bordo dei grandi piroscafi e transatlantici che, affrontando per settimane la forza indomita dell’oceano Atlantico, portavano all’altro capo del mondo intere famiglie di italiani, irlandesi, britannici, tedeschi e persino russi. Gran parte di ciò che è oggi New York e l’America stessa è il risultato di ciò che è stata quell’immigrazione. Non per nulla, d’altronde, lo stesso bisnonno del Presidente Donald Trump, Frederick, emigrò nel 1885 dalla lontana Renania a New York dove lavorò come prima come barbiere e poi fece fortuna aprendo hotels e ristoranti sulle spiagge dell’Oceano Pacifico.
Tutte quelle persone, distinte già dentro la nave per classi e capacità di spesa, avevano lasciato dietro di loro ogni affetto, ogni legame e radice con il territorio, ogni sicurezza per inseguire solo un ipotetico sogno in una terra lontana dove si parlava una lingua del tutto sconosciuta e non si conosceva nulla di ciò che si sarebbe incontrato. Chi viaggiava in terza classe sapeva solo da cosa scappava, ovvero dalla miseria, dalla disoccupazione, da un duro lavoro dei campi che non ti permetteva neanche più di mettere assieme il pranzo con la cena, dalla consapevolezza di dover tentare un’altra strada per poter assicurare ai figli e alla famiglia l’istruzione e una vita decente.  Dopo la lunga traversata, tra il fastidioso fumo del piroscafo ormai già in fase di attracco e l’euforia nel vedere finalmente la terra ferma, tutti passavano obbligatoriamente davanti a quell’immensa Statua della Libertà che sembrava accoglierli in un luogo fatto solo di grandezza e di meraviglie inimmaginabili. Erano così tante quelle persone in cerca di un sogno da realizzare che si dovettero ben presto introdurre le quote e individuare per ogni nazione di provenienza dei limiti d’ingresso ben precisi. Superato quel limite si era respinti ma, sempre che si disponesse dei soldi necessari per il viaggio, si poteva ritentare l’anno successivo come si fa con un gratta e vinci o con una lotteria.
Purtroppo, anche coloro che ce la fecero al primo colpo si accorsero  molto presto che non era tutto oro quel che luccicava alla loro vista e che, seppur distanti poche centinaia di metri dai loro occhi, molti non avrebbero mai potuto metter piede dentro quei grattacieli visti solo nelle pagine dei giornali nostrani. Non appena le navi venivano assicurate al molo con grossi canapi su di esse salivano i medici del Servizio Immigrazione di Stato. Ogni immigrante veniva accuratamente spogliato e ispezionato come se invece di uomini e donne si trattasse di accettare lo sbarco di una merce qualsiasi che non poteva di certo essere avariata. Chi non passava subito la selezione, e doveva essere sottoposto ad altri più accurati esami, veniva contrassegnato sulla schiena con varie lettere attraverso l’uso di una bacchetta di gesso. Così la sigla PG, ovvero l’acronimo di pregnant, catalogava le donne incinte, la K chi soffriva di ernia, la X chi presentava problemi psichici e via di seguito per tante altre tipologie di patologie.
Già, proprio così. L’ingresso negli USA, così tanto sprovvisti di forza lavoro a basso costo da realizzare su un’isola il primo hub internazionale dell’immigrazione umana della storia, era un sogno per molti ma non per tutti. Coloro che non erano giudicati sani e che, secondo le linee guida emanate dall’amministrazione, non potevano avere a priori le caratteristiche sanitarie minime da consentirne l’impiego nella “grande macchina produttiva americana” venivano rimbarcati in tutta fretta nelle stesse navi o piroscafi da cui erano scesi e rispediti con un foglio di via al proprio paese di origine. Chi era vecchio, cieco, sordo, mutilato o deforme vedeva così infrangersi il proprio “sogno americano” a un passo dalla meta tanto agognata e sognata senza alcuna possibilità di appellarsi e, spesso, con la consapevolezza di aver sprecato in quella triste traversata gli ultimi soldi disponibili. Che strano pensare oggi che mia madre, sorda dalla nascita, non sarebbe potuta entrare per quella sua menomazione fisica in quel Eldorado di allora e che per realizzare quel sogno la mia famiglia si sarebbe dovuta separare. Proprio questo accadde a tanti.  Molti genitori furono separati dai figli e viceversa. Tante famiglie dovettero dividersi su quella banchina proprio perché un genitore, un figlio o un parente cieco o sordo era stato giudicato “inidoneo” e quindi doveva essere rimpatriato. Come lo si poteva lasciar tornare in patria da solo? Chi si sarebbe dovuto sacrificare per riaccompagnarlo e prendersi cura di lui? Tante madri dovettero sacrificarsi e tornare a casa lasciando lì sul suolo statunitense marito e figli. Chissà che sentimenti hanno dovuto provare quei nostri concittadini scartati solo perché nati sfortunati? Chissà che viaggio di ritorno in Italia hanno dovuto sopportare sapendo di essere stati rifiutati e di essere anche stati la causa principale della rottura di un sogno o, peggio, della scissione di una famiglia che solo poche ore prima credeva di aver raggiunto il proprio scopo mentre passava sotto l’occhio attento della Statua della Libertà? Tuttavia, quella era la legge e l’umanità non poteva che soccombere.
Chi, invece, superava il primo controllo medico a bordo della nave veniva accompagnato presso la così detta Sala dei Registri. Qui altri funzionari dell’amministrazione USA registravano le generalità degli immigrati, verificavano se avessero con loro disponibilità di denaro o oggetti preziosi, si accertavano che i nuovi “entrati” avessero o meno già altri familiari, parenti o conoscenti nel Paese, catalogavano tutti in base alle professionalità dichiarate. Solo più tardi negli anni venne introdotta anche una prova di conoscenza della lingua inglese che tanti faticarono a superare. Se tutto scorreva liscio si otteneva il tanto ambito permesso di sbarco e con quel pezzo di carta si poteva raggiungere Manhattan con i traghetti a loro dedicati. Iniziava così il vero sogno americano e con esso un’avventura nel buio. Molti ci sono riusciti e hanno avuto successo, tanti altri no.
Oggi Ellis Island è solo un museo. Uno dei tanti che meriterebbero di essere visitati, ma non con gli occhi svogliati di un semplice turista ma con quelli di chi ha bisogno di conoscere per non commettere gli stessi errori del passato. Tanti arrivano su quell’isolotto per visitare il più grande museo sull’immigrazione del mondo certi di immergersi in una storia ormai lontana che nulla ha a che fare con loro, salvo poi accorgersi di averne fatto in qualche modo parte e uscirne arricchiti. Non farebbe male a tanti italiani visitarlo. Sarebbe istruttivo per tanti nostri politici recarsi lì e meditare sulle foto esposte lungo i vari percorsi tematici. Dovrebbe essere un tappa da inserire anche nell’elenco delle “visite d’istruzione” più gettonate per gli studenti delle nostre scuole superiori. Senz’altro si capirebbero più cose laggiù che a Euro Disney o in un parco giochi acquatico.
Molte delle ipocrisie, falsità e luoghi comuni che oggi ci sentiamo vomitare addosso sul problema dell’immigrazione verrebbero meno se solo avessimo la possibilità di visitare quel museo e dedicare due ore del nostro tempo a passare in rassegna quelle immagini dei nostri conterranei che arrivavano per la prima volta sul suolo americano carichi di ogni tipo di fagotto. Basterebbe, infatti, fermarsi a riflettere su una o due di quelle gigantografie per capire come sono ingannevoli, erronee e del tutto prive di fondamento tante di quelle accuse, rimostranze o presunte prove che oggi usiamo, o siamo invitati ad usare, per negare il bisogno di immigrazione a chi, invece dell’Atlantico, attraversa il Mediterraneo per abbandonare l’Africa o territori ancora più lontani.
Proprio oggi, sulla rete e sulla stampa on line, gira a manetta il video di un sacerdote del frusinate che in una accorata omelia ai suoi concittadini afferma, ben conscio di essere polemico, di non vedere il bisogno di espatrio in chi arriva con i barconi indossando collane e portando nelle mani dei telefonini. Questo sacerdote non riesce a vedere in questi nostri fratelli dei perseguitati o dei bisognosi perché possiedono una collana e un telefonino che le telecamere inquadrano con insistenza mentre sono a bordo dei loro gommoni o delle navi delle ONG a cui oggi è vietato attraccare per motivi di sicurezza nei nostri porti e anche in tanti altri porti di un’Europa che sembra crollare su sé stessa. Per lui, e in questo ha ragione, ci sono anche tra di noi, nei nostri paesi e nelle nostre città, tante persone bisognose e disperate che tacciono per la vergogna e che nessuno aiuta. Tuttavia, non si può far pagare agli altri una colpa che è solo nostra, perché ciò che succede nella nostra realtà quotidiana è anche frutto dello scarto e dell’indifferenza a cui ci siamo abituati e venduti per seguire gli appetiti e i richiami dei nuovi pifferai magici.
Chissà se questo prete ha mai visitato Ellis Island o ha mai sfogliato un libro che ne racconta la storia? Forse nel farlo cambierebbe idea. Forse basterebbe a questo sacerdote, e a tanti altri che sono oggi convinti che possedere una collana o un telefonino sia sufficiente a negare il bisogno e la necessità di espatrio o l’attribuzione del termine “bisognosi” a chi li usa, soffermarsi per 5 minuti ad osservare una delle tante immagini presenti all’interno del museo newyorkese. Sì, basterebbe solo meditare sulla foto che ritrae alcuni italiani appena arrivati ad Ellis Island  nel 1905. Questi nostri connazionali sono ben vestiti, portano tutti sul capo dei bei copricapi di ottima fattura, alcuni indossano persino la cravatta e il soprabito con il bavero in pelliccia. Se si osserva con attenzione si può notare che alcuni degli uomini più anziani portano sul loro gilet degli orologi a cipolla con tanto di catenina. Qualcuno porta in mano un gran bell’ombrello. Altri hanno alle dita degli anelli d’oro, forse dei pegni d’amore di persone che si sono lasciate dall’atra parte dell’oceano. Infine, hanno con loro tanti bagagli, bauli, valigie piene di cibo portatosi dall’Italia. Cosa avrebbero dovuto supporre gli americani alla vista di questi nostri connazionali? Forse che non erano poi così bisognosi di un lavoro, di una nuova occasione, di inseguire un sogno o una speranza? Forse che si erano imbarcati per gioco, per divertimento, per noia?
Forse tutto questo ha reso quei nostri concittadini delle persone ricche che non scappavano dal loro amato paese natio per necessità ma esclusivamente per gioco o diletto? Forse l’avere in testa un bel cappello, indossare un anello d’oro di fidanzamento o una fede nuziale, possedere un orologio a cipolla con tanto di catenina rendeva questi nostri concittadini del 1905 dei “falsi bisognosi”, degli abili simulatori o delle persone che emigravano non per bisogno o per necessità ma per altri fini e obiettivi? No, assolutamente. Quelle persone erano nostri concittadini bisognosi che fuggivano dall’Italia per cercare fortuna e speranza. Quei nostri concittadini non erano uomini e donne, giovani e anziani, mariti e mogli perseguitati dall’oppressione politica o dalla guerra ma dal bisogno di credere in un futuro migliore per sé stessi e per i propri figli. Non era il possesso di qualcosa di materiale che tenevano sul taschino o sulle dita di una mano, e che forse era il solo ricordo che possedevano degli affetti più cari che avevano lasciato per sempre nei loro villaggi, a rendere il loro bisogno minore o a fare del loro sogno qualcosa di meno nobile.
Proprio mentre stavo completando questa riflessione il mio smartphone si è improvvisamente illuminato. Mi era arriva una delle tante notifiche Instagram. Qualcuno aveva aggiunto un post ad un gruppo che seguo. Sì, mi era stato notificato un nuovo messaggio. L’immagine di San Pio di Pietrelcina con impressa una sua famosa frase: “La troppa paura ci fa operare senza l’amore e la troppa confidenza non ci fa considerare e temere il pericolo che dobbiamo superare”. Una frase semplice che ci ricorda, con altri termini, la stessa sostanza del vibrante messaggio che Papa Francesco vuol condividere con tutti noi sul problema dell’immigrazione, sul bisogno di chi fugge, sulla necessità di comprendere non solo le ragioni di chi è profugo, e fugge dalla guerra o dalla persecuzione, ma anche il bisogno profondamente umano di chi scappa dalla sua terra perché ha solo fame e necessità di poter sperare in una vita migliore per sé e per la sua famiglia.
Davanti a ciò che la cronaca di ogni giorno ci racconta, tra navi che non attraccano, porti che restano chiusi, stati che si rimpallano i bastimenti umani senza alcuna umanità,  dovremmo tutti attardarci un attimo a riflettere con più calma su ciò che sta realmente alla base delle scelte che altri si sentono costretti a compiere. L’insegnamento contenuto in quella semplice frase che San Pio da Pietrelcina ci ha lasciato è, in estrema sintesi, tutto ciò che un buon cristiano dovrebbe fare per tener fede alla sua promessa di seguire Gesù, il suo insegnamento e la sua Chiesa. L’amore deve sempre vincere le nostre paure perché, a differenza di tanti altri, è un sentimento che deriva direttamente da Dio e non può mai essere qualcosa di negativo, superfluo, succedaneo o, peggio, di cui avere vergogna.