Edith Stein: gli ultimi giorni ad Auschwitz della monaca carmelitana

Edith Stein
e l’ingegneria del male

di Cristiana Dobner

Edith Stein, consegnata con la deportazione all’ultimo viaggio per giungere in quel luogo, Auschwitz, dove regnava l’ingegneria del male e che significava distruzione e morte certa, fu ridotta a cenere. La furia nazista supponeva di aver cancellato insieme con Israele anche la memoria e ogni traccia dell’efferatezza compiuta, invece lo “scacco matto” si è rivoltato contro gli apparenti vincitori, e i superstiti hanno saputo raccontarlo. È possibile quindi ricostruire gli ultimi giorni di Edith Stein prima che scomparisse nell’oblìo e nel silenzio.
Il nudo meccanismo della distruzione non ha avuto la meglio, malgrado la perfetta organizzazione confermata dal telegramma segreto a firma di Eichmann. Il 20 luglio 1942 venne diffusa e letta nei Paesi Bassi la lettera dei vescovi olandesi che, con forti e vibranti accenti, richiamava la popolazione all’aiuto dei perseguitati e si schierava con gli ebrei. Fu una trappola e si tramutò nell’occasione: i nazisti organizzarono per rappresaglia una retata in cui vennero inclusi anche i religiosi, 300, di origine ebraica. S. Romano afferma: “La sua [Edith Stein] deportazione ad Auschwitz nell’agosto del 1942 fu il risultato di un duro scontro fra le autorità tedesche e il clero olandese”. Strappata al monastero fu condotta con la sorella al Lager di Amersfoot, dove la baracca loro assegnata già rigurgitava di prigionieri: “Le sette religiose formavano un gruppo a sé, una piccola Comunità: pregavano insieme, dicendo il breviario e il S. Rosario… Edith Stein veniva spontaneamente considerata da loro come superiora, perché traspariva in lei una forza soprannaturale”. Portava sul suo abito, come tutti gli altri, la stella ebraica, “era calma, non nervosa, al contrario di Suor Rosa. Secondo il mio parere, questo proveniva dal suo abbandono a Dio.
A Maastricht ovviamente ha pianto anche lei, ma più tardi il contrasto tra lei e Rosa era molto chiaro”. Alcuni amici del monastero riuscirono a raggiungerla: “… si parlò di calci e di colpi del fucile. La Serva di Dio lo raccontò con la massima tranquillità, senza agitazione interiore”; il giornalista Van Kempen si trovò dinanzi “una donna spiritualmente grande e forte”, egli durante il loro colloquio fumò una sigaretta e le chiese “se ne volesse una anche lei. Mi rispose che lo aveva fatto un tempo e che un tempo, da studentessa, aveva anche ballato”.
La possibilità di fuga e scampo le si era presentata molte volte nell’ultimo decennio della sua vita: l’offerta di una cattedra universitaria in America Latina, un rifugio con documenti falsi in uno sperduto convento olandese, la salita in Palestina, dove avrebbe desiderato vivere; sempre rifiutò in nome della Verità tanto da lei cercata ed amata. La sua priora conferma nella deposizione: “Avrebbe potuto benissimo scomparire in un convento su una isola della Frisia, ma rifiutò di farlo perché non voleva sfuggire neanche all’ingiusta persecuzione per vie torte”.
L’ultimo diniego di piegarsi lo sperimentò a Westerbork, vicino a Assen, nell’Olanda nordorientale a trenta chilometri dal confine tedesco, campo costruito dagli olandesi nel 1939, con il consenso dell’organizzazione ebraica, per raggruppare rifugiati ebrei, tedeschi o apolidi, entrati illegalmente nel paese e divenuto dal 1 luglio 1942 “campo di transito di polizia”: per centomila ebrei olandesi, l’ultima fermata prima di Auschwitz. Un impiegato olandese che prestava servizio al campo e le aveva letto negli occhi uno smisurato e pacato dolore, testimoniò più tardi nel corso del Processo di Beatificazione: “Dal suo essere silente emanava un forte influsso… Parlava con umile sicurezza, tanto da commuovere chi la sentiva. Una conversazione con lei … era come un viaggio in un altro mondo. In quei momenti Westerbork non esisteva più…. Mi disse: – Non avrei mai creduto che gli uomini potessero essere così e… che i miei fratelli dovessero soffrire tanto! – Quando non ci fu più dubbio che dovesse essere trasportata altrove, le domandai se potevo aiutarla e (cercare di liberarla); … di nuovo mi sorrise supplicandomi di no. Perché fare un’eccezione per lei e per il suo gruppo? Non sarebbe stata giustizia trarre vantaggio dal fatto che era battezzata! Se non avesse potuto partecipare alla sorte degli altri la sua vita sarebbe stata rovinata: – No, no, questo no!”.
La carmelitana non smentì la sua statura interiore, affermò anche: “Il mondo è formato da contrasti… Ma la finale non sarà formata da questi contrasti. Rimarrà solo il grande amore. Come potrebbe essere diversamente?”. Solo nel vivo dramma del campo Edith Stein toccò con mano una realtà che aveva sottovalutato: “Non avevo mai saputo realmente che i miei fratelli e le mie sorelle dovessero soffrire così…Ogni momento prego per loro. Se Dio ascolta la mia preghiera? Egli ascolta certamente il loro lamento”.

(©L’Osservatore Romano 9 agosto 2012)