«La credibilità dell’amore »: è necessaria una «teologia politica». La fede che davvero ci segna e ci ispira

Perché abbiamo bisogno di una ‘nuova’ teologia politica? La domanda è nata nel mio cuore e nella mia mente allorché ho constatato che, nel dibattito al Senato sulla crisi del governo giallo-verde, si sono evocati «simboli religiosi», con tanto di esibizione di rosari ed evocazione di una pagina evangelica, con il riferimento al nesso ’ndrangheta-superstizione, e ciò senza dover riprendere l’immaginetta di san Pio esposta dal premier vecchio e nuovo in una trasmissione televisiva, per non dire di iniziative come quella del sindaco leghista di Ferrara che ha acquistato qualche centinaio di crocifissi da installare nelle scuole. Qualche eco di queste evocazioni ha raggiunto il più recente dibattito parlamentare sulla fiducia al governo Conte Secondo. Se abbiamo assistito a questa irruzione del ‘religioso’ in politica, è perché, certamente con intenti strumentalizzanti, i politici intercettano aspetti inquietanti e diffusi di quel ‘ritorno al sacro’ di cui si parla da tempo.

Non si tratta di episodi da marginalizzare e non prendere sul serio, anche perché pongono domande cruciali alla teologia. Se, infatti, nel contesto latino-mediterraneo tende a perpetuarsi un clima come quello efficacemente e magistralmente descritto nell’ultimo film di Pupi Avati, ‘Il signor diavolo’, è anche a causa di un deficit di teologia nella nostra vita ecclesiale, come un surplus teologico nei Paesi francofoni e in Germania (considerati a lungo nei nostri ambienti come punti di riferimento imprescindibile per il sapere della fede) ha sviluppato un modello accademico e molto lontano dalle tematiche concrete della gente, che va progressivamente e in maniera esponenziale abbandonando la fede.

Se la teologia italiana vuole farsi carico di queste istanze e non ridursi a discutere del sesso degli angeli o dell’ombelico di Adamo, deve cercare di dire qualcosa ai cittadini di questo Paese e alle nostre Chiese. Di qui la necessità di una ‘nuova’ teologia po-litica, a meno che non si intenda restare nell’ambito di un pensiero teologico accademico e clericale che nulla ha da dire alla città e ai suoi abitanti. Nuova dovrà qualificarsi questa proposta rispetto all’espressione, ormai storica, della teologia di Johan Baptist Metz, cui si è ispirata la teologia della liberazione. Rispetto a queste elaborazioni non è stato difficile, col senno del poi, prendere le distanze, innanzitutto perché non hanno resistito alla critica che le ha viste succubi di impostazioni ideologiche ritenute incompatibili con la fede e col pensiero cristiano.

Dal mio personale (spero non individuale) punto di vista, quella della politica è un’esigenza profonda della stessa teologia, che non può non sporgersi sulle vicende umane e sulle loro espressioni. È certamente anche una questione di linguaggio. Intercettare la polis con le sue angosce e le sue risorse è imprescindibile per il teologo, chiamato a illuminare con la luce della rivelazione tali istanze e contesti. E questo compito si coniuga con quello, altrettanto inevitabile, di accompagnare il generoso, coraggioso e rischioso impegno sociale dei cristiani nelle emergenze che ci vedono presenti nelle periferie esistenziali e culturali del nostro tempo. Al tempo stesso non si può delegare il discernimento rispetto a forme di devozionismo e di superstizione, che nulla hanno a che fare con la fede. Sintomatico i fatti, che in questi giorni abbiamo registrato, di vescovi illuminati come quello di Locri, che ha dovuto mettere in guardia dal ricondurre il santuario di Polsi al contesto mafioso, e di quello di Viterbo che, in occasione della festa di santa Rosa, ha invitato a trasformare la devozione in fede. Sono momenti e processi che i teologi devono accompagnare con una presenza viva nel tessuto ecclesiale e civile.

D’altra parte, se sono i vescovi a esprimersi in campo politico, si può facilmente dar adito all’accusa di ingerenza, ma ciò accade perché non sono i fedeli laici e i teologi ad esporsi, preferendo rifugiarsi nelle comode scrivanie o cattedre che abitano nell’università o nelle istituzioni accademiche o in riflessioni e argomentazioni astratte, utili, ma non decisive per dar corpo alla credibilità della rivelazione cristiana. Proprio di questo si tratta: l’esposizione politica della teologia attiene alla necessità, in primo luogo per la mia disciplina (la teologia fondamentale), di rappresentare la credibilità della rivelazione, che come scriveva Hans Urs von Balthasar è «la credibilità dell’amore ». In questo orizzonte abbiamo bisogno di una nuova teologia politica e di una rinnovata politica della teologia in Italia.

Nasce così la consapevolezza che quella della teologia risulta sempre più un’esigenza della politica. La polis ha un urgente bisogno di presenze religiose che non si affermino solo a partire dall’emozione e dal sentimento, ma anche dal pensiero e dalla ragione. La minaccia del fondamentalismo religioso e del conflitto di civiltà non si sradica soltanto con iniziative di intelligence poliziesca. Abbiamo bisogno di unaintelligence della fede e delle fedi per non soccombere a tentazioni di pericoloso fideismo. Per questo, oltre che di un linguaggio adeguato, dobbiamo far ricorso non solo al lavoro e all’esposizione di un singolo teologo, ma a iniziative che coinvolgano équipe di addetti ai lavori, capaci di interfacciarsi con il pensiero filosofico e le altre forme del sapere, in modo da elaborare un gioco di squadra, che potrà anche portare alla sconfitta, ma almeno si è entrati in campo e non si è abbandonata la presa prima di aver detto la propria. In questo contesto ricevere dalla teologia cristiana una elaborata riflessione sulla ‘laicità’, a partire dal loghioncristologico (e direi gesuano) del «restituite a Cesare ciò che è di Cesare e restituite a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 16-17) può certamente ispirare l’azione politica di quanti non intendano la laicità come pura e semplice neutralità, ma piuttosto come appartenenza a un popolo ( laos) che crede e che vuole pensare. Se la laicità nel quadro del ‘nuovo umanesimo’ invocato dal premier, significa neutralità, essa non ci sembra appartenere alla cultura e alla religiosità del nostro popolo, ma neppure può essere interpretata nel senso di un devozionismo bigotto e superstizioso. E nell’ardua impresa di trasformare la devozione in fede, la teologia deve esserci d’aiuto e può offrire un contributo decisivo.

da Avvenire