È la mitezza diversa che salva

Al profeta Dio non si rivela come un astratto assoluto, ma come rapporto intimo e personale
Abraham Heschel, Il messaggio dei profeti

Le nostalgie buone, quelle capaci ora di parlarci, sono soltanto le nostalgie di futuro, quelle che sanno distendere lo sguardo verso il presente e il futuro. Non si rigenera un rapporto d’amore tornando alle parole che lei ci diceva nei tempi felici, ma sognando e dicendo parole d’amore che non abbiamo mai detto. C’è una reciprocità vitale ed essenziale tra passato e presente. La promessa dell’origine dona senso e verità alle speranze nei tempi degli esili e dei deserti; e l’adempimento delle promesse di ieri nell’oggi, dice che non abbiamo seguito una illusione. «Questa parola fu rivolta dal Signore a Geremia: “Riferisci agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme: Ascoltate le parole di questa alleanza!” (…) “Ascoltate la mia voce ed eseguite quanto vi comando; allora voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio, e potrò mantenere il giuramento fatto ai vostri padri di dare loro una terra dove scorrono latte e miele. Che oggi è realtà”. Io risposi: “Così sia, Signore!”» (Geremia 11, 1-5). Geremia è custode della memoria dell’Alleanza. Una memoria, però, che ha come punto di partenza il presente: «Oggi è realtà». La qualità della vita di domani è iscritta nella qualità della vita del presente: nelle sue fedeltà-infedeltà, nelle sue verità-illusioni. I profeti non inventano il futuro, lo vedono semplicemente già nel presente, grazie ai loro occhi diversi. E il presente di Gerusalemme è la rottura dell’Alleanza: «Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio; ognuno seguì la caparbietà del suo cuore malvagio» (11,8).

A cuore della grande profezia c’è incastonata una perla di valore inestimabile. Se la vita è vissuta come vocazione – religiosa, civile, artistica – non siamo sempre liberi nel rapporto con le nostre parole. Quella libertà che sperimentiamo per il 90 o forse il 99% delle nostre parole, che ci consente di attenuare, smorzare, addolcire, mitigare le nostre parole senza tradire la loro (e la nostra) verità, scompare quando ci troviamo di fronte ad alcune rarissime parole diverse e speciali. Quelle che devono essere pronunciate esattamente nell’unico modo possibile, senza modificare neppure una vocale, perché escono dall’anima già perfette e noi possiamo e dobbiamo semplicemente dirle così come ci raggiungono – il primo ’sì’, l’ultimo, quella frase precisissima da cui dipendono la dignità di una persona, la verità di un rapporto, la fedeltà alla nostra storia, la non-vergogna del nostro cuore. Frasi e parole dove le virgole contano quanto i verbi e gli aggettivi. Queste parole diverse e speciali hanno un solo modo di essere pronunciate, e se lo sbagliamo sbagliamo tutto, le parole muoiono trasformandosi in chiacchiere. Sono quelle parole che valgono molto solo se riusciamo a non modificarle quando la pietasumana per chi abbiamo di fronte o per noi stessi vorrebbe farlo; e che non valgono più niente se – per qualsiasi ragione, anche le più nobili e umane – le emendiamo.

Nella vita dei profeti, dove ritroviamo l’archetipo di ogni vocazione autentica, queste parole non sono rare come nella nostra, perché molto più frequentemente di noi vivono dei momenti nei quali non possono fare altro che obbedire alla parola, alle parole, e poi dirle. Molte di queste parole sono state custodite nella Bibbia e quindi sono arrivate fino a noi, per aiutarci a dire le nostre poche parole speciali e diverse, che ci attendono fedeli e puntuali nei crocicchi decisivi della vita. Da dentro questo misterioso rapporto tra i profeti e la parola, è possibile intuire qualcosa di una frase forte e tremenda come questa: «Il Signore mi disse: “Tu, poi, non intercedere per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere, perché non ascolterò quando mi invocheranno nella loro sventura”» (11,14).

Geremia non è Abramo che dialoga con Dio e intercede presso di lui per evitare la distruzione di Sodoma (Genesi 18). Abramo, il primo patriarca, porta a Elohim la voce del popolo, è il vertice di una piramide che dalla terra si eleva fino a Dio. Il profeta, invece, non ha la vocazione di parlare a Dio del popolo, ma quella di parlare di Dio al popolo. La sua voce è il vertice di un’altra piramide che ha la base in cielo e si affaccia sulla terra. Deve intercedere presso il popolo perché salvi Dio: è questo il senso profondo della sua polemica anti-idolatrica. Ogni profeta è questo: una voce che dal “cielo” si affaccia sulla terra. Il suo corpo è tutto terra, come ogni uomo e ogni donna, ma la sua voce non gli appartiene. È il suo corpo, le sue carni, il luogo dove si incontrano cielo e terra, dove si spiega e si consumano la sua vocazione, le sue sofferenze, le sue persecuzioni: «Gli uomini di Anatòt hanno attentato alla mia vita e mi dicono: “Non profetare nel nome del Signore, se no morirai per mano nostra”» (11,21). È la prima volta che incontriamo Geremia in pericolo di morte, per una congiura contro la sua persona orchestrata dai suoi concittadini, che coinvolge anche la sua famiglia: «Il Signore mi disse: “Persino i tuoi fratelli e la casa di tuo padre, persino loro sono sleali con te; anch’essi ti gridano dietro a piena voce; non fidarti di loro quando ti dicono buone parole”» (12,6). Un profeta è disprezzato proprio nella sua patria, dentro casa, tra i suoi fratelli. Dentro la sua comunità. È lì il luogo da cui partono quasi sempre le congiure per eliminarlo. Geremia sente da Dio di non fidarsi neanche dei parenti più intimi, di non ascoltare le loro parole (che sembrano) buone.

C’è una ragione specifica, contingente, dietro a questo episodio della vita del profeta, che forse risale all’inizio della sua attività. Il principale reato attribuitogli dal suo popolo era la sua predicazione contro il tempio, la sua critica radicale ai sacrifici che lì si compivano e soprattutto alla ideologia regale del tempio e alle sue illusioni di salvezza («Voti e carne di sacrifici allontanano forse da te la sventura, così che poi canti vittoria?»: 11,15). La famiglia di Geremia era di stirpe sacerdotale, e quella sua critica ne toccava l’identità profonda e il ruolo sociale. Ma questa congiura contiene un messaggio di portata universale. La congiura può essere la reazione naturale verso chi smaschera una ideologia molto radicata nel popolo, e lo fa in nome di una autorità e una investitura diversa da quelle istituzionali. Non dimentichiamo mai che i profeti ricevono la loro autorità direttamente, che non viene mediata e ratificata da nessuna istituzione gerarchica. La loro legittimità morale e spirituale è quindi sempre controversa, parziale e imperfetta, e la loro casa è sempre in terreni che le autorità considerano abusivi, per poi poterla demolire. Geremia è nato e cresciuto in una famiglia sacerdotale, è di stirpe sacerdotale, e si ritrova per vocazione a criticare radicalmente l’ideologia prodotta proprio dalla sua famiglia. È questo il destino di quei profeti che sono chiamati a profetizzare all’interno della comunità-fede nella quale sono cresciuti e vivono, che devono – per compito – criticare pubblicamente e duramente l’ideologia generata giorno dopo giorno dagli ideali e dalla fede della propria comunità. Giona fu mandato da Dio a profetizzare a Ninive, una città straniera. Geremia, uomo di Anatot, profetizza in Anatot.

La Bibbia conosce bene la fraternità omicida (quella di Caino, ma anche quella dei fratelli di Giuseppe), come sa altrettanto bene che le ideologie-idolatrie sono più forti dei legami di sangue. Quando, anche in buona fede, siamo catturati da una ideologia, questa diventa un padrone talmente spietato da poterci comandare di uccidere fratelli, figli, genitori. L’ideologia-idolo è sempre in cerca di nuove vittime sacrificali. All’inizio, Geremia non si era accorto della congiura, e quindi aveva creduto alle parole dei suoi amici/fratelli: «E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me, e dicevano: “Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi; nessuno ricordi più il suo nome”» (11,19). Questa prima mansuetudine non era una virtù, ma solo inesperienza e ignoranza. Un giorno, poi, Dio gli rivela l’intrigo omicida, e inizia una nuova tappa della sua missione profetica. Geremia capisce che deve cambiare radicalmente il suo atteggiamento verso la sua famiglia e la sua comunità, per poter continuare a svolgere il mandato ricevuto e quindi non morire. In quel giorno fiorirà in Geremia una nuova mitezza, non più quella dell’agnello che era mite perché ignorante delle intenzioni dei suoi carnefici. È questa la speciale mitezza dei profeti che superano la fase della prima mitezza ingenua, una nuova mitezza che a chi li osserva appare spesso come il suo opposto. La loro è la mitezza alla parola, incomprensibile a chi non conosce né la Bibbia né i profeti, né il Cristo. È la mitezza di chi grida inchiodato su croci sulle quali non voleva salire, e che diventa mite solo quando una parola, dentro, glielo chiede.

Troppi profeti veri si bloccano e non completano la loro missione nel mondo perché la mitezza ingenua della prima fase della loro vocazione li conduce, docili, al macello, e lì vengono uccisi. Perché non riconoscono l’intrigo e vengono assassinati proprio dai loro famigliari e amici. Abbiamo il Libro di Geremia perché quel profeta riuscì a capire che alle sue spalle si stava tramando una congiura, fuggì, continuò la sua opera, scrisse il suo libro. Non è facile accorgersi di queste trappole mortali, proprio perché si sviluppano dentro casa. Un giorno una voce dentro avverte del pericolo, ma neanche i profeti migliori riescono sempre a riconoscerla, perché viene coperta dalla forte voce del sangue, dei legami spirituali, dalla voce dei propri responsabili, o dalla voce buona del fondatore che incoraggia e loda quella prima mitezza. E così la parola del profeta viene ricoperta, uccisa, e lui/lei si tace, non parla più. Molte comunità muoiono perché uccidono quei profeti ingenui e mansueti che avrebbero potuto salvarle se fossero giunti a una mitezza diversa.

l.bruni@lumsa.it in Avvenire