È il culto della e nella vita che invera il culto del momento sacramentale e rituale. «Non servirebbe a nulla offrire il sacrificio di Cristo se non ci fosse da parte nostra un’adeguata corrispondenza interiore»

postille

In un recente incontro di confratelli, il semplice accenno al nuovo Messale ha provocato questo unanime parere: Pessimo!

Non me la sento di condividere appieno quel parere, perché dietro la terza edizione c’è tutto un lavoro iniziato nel 2002 da parte di teologi, liturgisti, biblisti, musicologi, italianisti, patrologi da non liquidare con un giudizio così tranchant, anche se in parte comprensibile, perché coglie qualche increspatura dovuta alla laboriosità del percorso che ha conosciuto varie tappe: ripensamenti, aggiustamenti, rielaborazioni.

Non so se, dal 2012 al 2014, il tutto è stato sottoposto al parere e alla sperimentazione previa anche da parte di liturgisti-parroci di lungo corso che avrebbero potuto dare utili suggerimenti.

Comunque, se i nuovi Lezionari si sono rivelati di debole costituzione quanto alla rilegatura, il messale ha una forte rilegatura, ma è “fragile” per il resto. Mi riferisco ai rilievi già fatti circa il formato, lo spessore della carta e il conseguente tipo di carattere che si è scelto: tutto ciò comporta una certa difficoltà.

L’edizione precedente al riguardo era perfetta da quel punto di vista. Il Messale d’altronde non è da asporto; deve avere una sua consistenza e bellezza grafica, tale da non creare difficoltà a chi avesse qualche problema di vista.

Queste osservazioni sono state già fatte da altri e hanno avuto risposte esaurienti da Paolo Tomatis, Il Messale 2020: struttura, grafica, immagini (RPL 4/2020).

Mi permetto tuttavia di far notare alcuni dettagli con qualche osservazione di critica costruttiva, ben consapevole che non ci si può soffermare sulle piccole innovazioni o modifiche trascurando l’impianto generale. Sarebbe «riduttivo infatti limitare la novità del Messale Romano ai piccoli cambiamenti di linguaggio e di traduzioni. La vera novità della terza edizione italiana consisterà nella consapevolezza con cui riceviamo il libro liturgico come testo da tradurre in un gesto eloquente e condiviso, espressivo e insieme performativo» (Paolo Tomatis, RPL1/2021).

Per iniziare

L’aver posto le indicazioni musicali per il segno di croce e il saluto iniziale non più in appendice ma nel corpo della pagina, da l’impressione che si sia inteso dare un chiaro messaggio: diamo alla celebrazione della Messa un tono, una modalità che orienti ad un certo stile di partecipazione che sia consapevole dello svolgimento di un’azione sacra che, per quanto la si voglia stemperare, non può e non deve degenerare. Sembra quasi una doccia fredda con un messaggio ben preciso: «Il sacrificio della messa ha pertanto la forza di renderci contemporanei con l’azione salvifica di Cristo, di collocarci nella presenza immediata dell’opera di Cristo» (Odo Casel, Il mistero del culto cristiano, pag, 168). Questa perlomeno è una mia impressione.

D’altronde, i linguaggi della preghiera liturgica debbono comunque caratterizzarsi anche per elementi di discontinuità, al fine di garantire lo scarto simbolico proprio della liturgia, pur restando comunque l’esigenza di dare alla celebrazione un tono vivo e festoso che erompa da tutto il contesto: canti che infondano gioia e fiducia e siano veramente una preghiera raddoppiata; movimenti, suoni, colori, clima generale che infonda serenità, che interrompa il ritmo dei giorni, riaccenda la speranza e la fiducia nella vita, senza tuttavia dimenticare, mentre intoniamo i nostri canti, il grido di dolore che si eleva dal mondo.

L’introduzione del Kyrie non ha creato grandi difficoltà, specialmente dove si era già abituati a cantarlo con le semplici e belle melodie gregoriane presenti Nella casa del Padre. Adottare però il Kyrie della messa gregoriana De Angelis appesantirebbe di molto lo svolgimento agile dell’atto penitenziale.

Dopo la preparazione dei doni, il celebrante esorta i partecipanti dicendo Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente. Nell’Ordinamento del 2004, al n. 146, era previsto che i fedeli nel rispondere si alzassero in piedi: populus surgit et respondet (Editio tipyca del 2000).

Nella terza edizione del Messale la Conferenza episcopale italiana ha pensato di modificare l’atteggiamento dei fedeli che sono invitati ad alzarsi solo all’inizio della preghiera sulle offerte. Non si quale sia stata la ragione di tale decisione.

Il terzo formulario Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo ad offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente si riferisce al culto spirituale che il cristiano esercita nella vita di ogni giorno vivendo il suo impegno mondano nella volontà di Dio, donando tutto sé stesso (gioie, dolori, fatiche e speranze nel sacro calice noi deponiamo, come suggerisce un canto), il che equivale alla parola sacrificio che, a sua volta, si concretizza nella gratuità della comunione fraterna attraverso il dono di sé.

Ed è proprio quel dono che il popolo presenta nella sua risposta Il Signore riceva dalle tua mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome… Si parla qui della liturgia che il credente svolge nella sua vita ordinaria, liturgia espressa dalla sua umanità. Poco prima il celebrante ha infuso nel vino poche gocce d’acqua che simboleggiano la nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana: “nostra unione”, cioè del popolo, a partire dal mistero dell’Incarnazione, del battesimo e nella vita quotidiana.

Quel pane e quel vino, dopo la consacrazione divenuti calice della salvezza e pane della vita, vengono offerti dall’assemblea in rendimento di grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.

È il culto della e nella vita che invera il culto del momento sacramentale e rituale. «Non servirebbe a nulla offrire il sacrificio di Cristo se non ci fosse da parte nostra un’adeguata corrispondenza interiore» (Rinaldo Falsini).

Il momento dell’offerta che segue l’anamnesi rimanda quindi al precedente dialogo tra il presidente e l’assemblea dopo la preparazione dei doni.

Venendo al dunque, non vedo perché il popolo debba stare seduto nel momento rituale in cui viene invitato a esplicitare il proprio sacerdozio!

E qui si insinua il sospetto, il pensiero malizioso: vuoi vedere che, vista la confusione che si creava durante la celebrazione in quel momento (chi continuava a stare comodamente seduto durante la preghiera sulla offerte e perfino durante il prefazio, chi si alzava dopo aver risposto all’invito e chi invece correttamente si alzava e rispondeva), si è deciso di invitare ad alzarsi solo all’inizio della preghiera sulle offerte, non tenendo conto del n. 146 dell’Ordinamento, anzi, modificandolo?

Se è vero che i riti educano nel loro svolgersi fatto di parole, di gesti e di movimenti, non è indifferente optare per una o l’altra scelta per le implicazioni teologiche che ho evidenziato e non certo per una pignoleria rubricistica. È il caso di dire che la forma si sposa con la sostanza.

Per Cristo Signore nostro?

Un’altra novità è stata introdotta nel Prefazio. Esso è «come una presentazione sintetica, ma ogni volta diversa del mistero di morte e risurrezione del Signore Gesù e introduce, all’interno della solennità del Canone, una dinamica storico salvifica in cui prevale, rispetto alla linearità di uno sviluppo, la ripetizione di un tema con variazioni. In esso la storia della salvezza entra nella Preghiera eucaristica, con tutte le sfumature dei racconti ascoltati» (cf. Grillo-Conti, La messa in 30 parole, pag. 120.122).

Come ogni racconto avvincente, il Prefazio non ammette quindi interruzioni, così come una sinfonia non prevede applausi ad ogni movimento.

In alcuni Prefazi al termine di un enunciato di fede o di storia della salvezza, viene nominato Cristo nostro Signore. Nella terza edizione vi è questa modifica: Per Cristo Signore nostro! Però nella colletta e in tutte le orazioni si è conservata la forma Per Cristo nostro Signore, e non poteva essere diversamente, perché lì deve seguire la risposta Amen.

Ed ecco il sospetto malizioso: visto che la maggioranza dei celebranti recitava quelle parole in una maniera tale da sollecitare una risposta che veniva spontaneamente al popolo, ecco che si è optato per una forma che grammaticalmente non sta in piedi, salvo motivazioni conosciute forse dagli Accademici della Crusca.

Eppure basta poco ad evitare confusione. Come chi proclama il salmo responsoriale deve stare attento alle strofe con sei versi collegando subito il quarto verso con i seguenti se vuole evitare che il popolo in automatico risponda col ritornello, così sarebbe bastato (e basterebbe) poco che il prete avesse collegato subito, dopo la brevissima pausa logica, il Per Cristo nostro Signore con ciò che segue.

Un’assemblea educata in tal senso non interverrà con un intempestivo Amen, dovesse pure prolungarsi più di tanto quella pausa. È questione anche di riflessi condizionati indotti dalle buone abitudini.

Sempre a proposito del Prefazio, lodevolmente si è voluto offrire per esteso la forma musicale in gregoriano per le solennità e i tempi forti per incoraggiarne il canto. L’edizione precedente, per facilitare il canto anche in altre circostanze sia col modulo gregoriano che con l’altro di felice inventiva melodica riportato in appendice, aveva allegato un foglio plastificato. Esso manca nella terza edizione.

Per cantare il Prefazio nell’una e nell’altra forma anche in altri momenti, in mancanza di rigo musicale nella pagina, è necessario comunque avere sott’occhio un sussidio. Aver relegato in appendice lo schema di canto per il Prefazio significa scoraggiarne il canto, a meno che uno non voglia utilizzare il precedente sussidio, visto che ne manca la ristampa in formato giusto.

Aggiungo che si sarebbe potuto offrire almeno un’altra melodia, visto che ci sono fior di compositori capaci di creare altre melodie agili, gioiose pur nello stile della cantillatio.

La rugiada

A proposito della rugiada, darò l’impressione di cantare extra chorum. Nell’editio typica del 1975 e in quella del 2021 è adottata la formula Spiritus tui rore. L’immagine della rugiada come segno della presenza e dell’azione di Dio è presente nel Primo Testamento e i Padri, e con loro la liturgia, vi hanno visto la presenza e l’azione dello Spirito Santo. Ci si è attenuti ad una traduzione letterale del testo latino, non tenendo forse in debito conto indicazioni diverse al riguardo (cf. A. Grillo in Munera del 23 ottobre 2021).

Siamo in presenza della poetica di un linguaggio che, proprio come la poesia, si presenta come una «differenza che attrae». Tuttavia, questa osservazione di Giuseppe Lorizio lascia qualche dubbio: «Chissà chi, tranne qualche funzionario condiscendente, sarebbe del parere di dire che rugiada dello Spirito piuttosto che effusione, è attualizzante o non piuttosto un malinconico ricordo di epoche in cui la natura era ancora incorrotta» (SettimanaNews, 2 settembre 2020).

Comunque, il nuovo incipit della seconda preghiera eucaristica è bellissimo e da solo impone una pausa ulteriore dopo il Santo.

Nelle messe per i defunti si è voluto conservare la formula «il defunto che hai chiamato a te da questa vita»: certo, alla fin fine è così, però in certe circostanze quella dizione è inopportuna e potrebbe suscitare più domande su Dio che sentimenti di fede.

Dossologia

Nella precedente edizione veniva indicata una melodia gregoriana bella e lineare. Però – e qui subentra il mistero – dappertutto quella melodia veniva cantata diversamente, con delle note aggiunte e con una cadenza finale non in linea con il tono o modo. Ho cercato invano nell’edizione del 1962, in quelle di Paolo VI e nel Messale Romano di Pio V una formula canora che autorizzasse a modificare quella presente nel messale di Paolo VI. Non ce n’è traccia. Nel Messale di Pio V il sacerdote pronunciava per conto suo la dossologia insieme a segni di croce e poi concludeva in canto Per omnia saecula saeculorum.

Ecco allora il sospetto: vuoi vedere che si è optato per l’altra formula inesatta, ma stranamente diffusa dappertutto, ma non presente nemmeno nel Messale di Paolo VI?

Per scrupolo di ricerca, su YouTube ho trovato un video in cui uno eseguiva la dossologia esattamente nella maniera difforme da quella indicata nel Messale ma affermatasi nella prassi per vie misteriose.

Non è stata comunque una bella soluzione riscrivere il canto della dossologia adeguandosi in parte all’andazzo di storpiare la melodia.

Immagino a questo punto che qualche benevolo lettore penserà che non è proprio il caso di perdersi in tante sottigliezze rituali quando nella Chiesa e nel mondo ci sono problemi ben più gravi. D’accordo. Se però c’è una qualche menda a cui nel tempo si potrebbe rimediare, sarà valsa la pena tanta pignoleria.

Un professore di liturgia all’inizio del corso consigliava ai suoi alunni di fare prima il mestiere di camionista almeno per dieci anni. Essere parroco da alcuni decenni in un quartiere periferico e popoloso, con una chiesa al rustico e priva di strutture a cui aver dovuto provvedere, penso che valga bene quei dieci anni da camionista.

Voglio concludere con alcuni paragoni musicali per indicare come utilizzare il Messale, che potremmo assimilare ad uno spartito che prevede una creatività originale e intelligente al contempo, in grado di dare vitalità rituale a ciò che è nella pagina. Le note nello spartito sono inerti: prendono vita prima nella mente del direttore che studia la partitura e poi attraverso i suoni dei vari strumenti.

La nona sinfonia di Schubert (la Grande) nel primo movimento ha un terzo tema solenne e misterioso emergente dalla compagine orchestrale in pianissimo e affidato ai tromboni. Mentre Willem Mengelberg tirava dritto con lo stesso tempo e senza attenuare la dinamica dell’orchestra, Klemperer e Furtwängler invece rallentavano alquanto all’inizio del tema, mettevano in sordina gli archi preparando a quell’aura di mistero resa bene dal suono solenne degli ottoni. Si trattava quindi di trovare equilibri e dosaggi che facessero emergere quel momento particolare.

Ciò vale anche nella celebrazione liturgica, nella quale bisogna saper dare un rilievo ben calibrato nell’insieme a particolari che parlino all’Assemblea con il linguaggio dei segni. Lo Spirito Santo fa sì che tutto nella liturgia colpisca, muova e formi il cuore dei credenti.

Herbert von Karajan aveva un modo di dirigere ieratico e molto concentrato, frutto di intenso studio e meditazione sullo spartito. Con i suoi gesti parchi ma tecnicamente perfetti ed eloquenti per gli esecutori e i presenti, riusciva a contagiare alla partecipazione interiore.

Padronanza del rito unita a plasticità plausibile e vera dei gesti liturgici di chi presiede e dell’Assemblea possono essere solo frutto di riflessione e di consapevolezza del mistero.

Settimana News