Duecentodiciassette anni. È questo il tempo che secondo il World Economic Forum sarà necessario, di questo passo, per colmare il divario retributivo tra uomini e donne

Duecentodiciassette anni. È questo il tempo che secondo il World Economic Forum sarà necessario, di questo passo, per colmare il divario retributivo tra uomini e donne. In un quadro di peggioramento globale, l’Italia precipita ben oltre la media all’82° posto, passando dal 41° posto del 2015 e dal 50° del 2016, su 144 Paesi. E se ci concentriamo sulle sole differenze retributive, siamo addirittura il 126° Paese. Certo, se prendiamo come punto di riferimento il mondo dove alle donne non era consentito lavorare se non dentro casa, di passi avanti ne abbiamo fatti molti. Ma non abbastanza, soprattutto sul piano culturale. Assistiamo difatti, a una sorta di “dissonanza cognitiva sociale” tra i princìpi dichiarati e i fatti concreti. Mentre proclamiamo la pari dignità e il diritto alle pari opportunità, non creiamo le condizioni per realizzazione effettiva di questi princìpi.

Molto passa attraverso una serie di impliciti che ci condizionano, tutti, uomini e donne, e ci offuscano lo sguardo. E così, ad esempio, vedere in un convegno un palco di relatori di soli uomini sembra normale, ma se a parlare sono solo donne risulta ancora strano, a meno che non si stia parlando di scuola o di servizi sociali. Inoltre, gli studi dicono che le bambine già a 7 anni si convincono di essere meno abili dei loro coetanei nelle materie scientifiche. Eppure i dati ci dicono che il tasso di istruzione universitaria e di riuscita all’università è superiore per le donne rispetto agli uomini.

Non credo che il cambiamento culturale passi per le “quote rosa”. Quello femminile è uno sguardo diverso sulla realtà e sul lavoro, che oggi manca ancora in maniera grave. Anche perché in molte strutture, come le imprese e le istituzioni politiche, pensate e costruite da sempre da maschi per maschi, aumentare semplicemente il numero di donne significherebbe aumentare il numero di coloro che dovranno snaturarsi pur di poter guadagnare spazi – non capiamo la tipica sofferenza lavorativa di molte donne oggi se non prendiamo sul serio il loro essere “estranei” in un mondo del lavoro straniero.

Le donne sanno nella loro carne che è più importante iniziare processi che occupare degli spazi economici – chi genera un bambino lo sa. Qualche volte si scomoda anche la meritocrazia, e si dice: “Non importa se maschi o femmine: ciò che conta è il merito”, come se la definizione e la misurazione del merito fossero qualcosa di oggettivo e di scientifico, e non fossero state fatte da maschi per maschi: è meritevole stare in ufficio per 12-13 ore senza limiti né respiro? Dove sta l’eccellenza nella cura per le relazioni nella nostra meritocrazia?

In questo cambiamento culturale è essenziale ripensare all’attività di cura – in famiglia, verso i bambini, verso gli anziani, la cura di sé. Questo dovere-diritto alla cura è universale, riguarda tutti, e non può più essere appaltato alle donne. Sono meno persona se non so lavarmi una camicia o leggere una favola a un bambino. Un bambino che nasce è figlio di tutti, non è una faccenda privata. Non c’è bene comune più alto di un figlio, di una figlia. E il contributo a questo specialissimo bene comune è dovere di tutti, maschi e femmine, dai primissimi mesi di vita agli ultimi. In un recente viaggio in India sono andata a visitare alcune famiglie.

Sono rimasta molto colpita dalle donne, a cui non è permesso lavorare, che dichiaravano di non avere particolari desideri, che si mostravano sottomesse ai loro mariti come se fosse la cosa più naturale. Al tempo stesso ho visto uno sguardo fiero, pieno di dignità e desiderio quando mi parlavano delle proprie figlie, di quanto si sacrificassero per farle studiare, perché avessero un avvenire diverso dal loro presente. In quegli occhi ho rivisto gli occhi splendidi delle mie nonne: lo stesso dolore e la stessa speranza, e non so quale fosse (ed è) più grande. Le donne hanno imparato che la speranza e il dolore sono amici molto intimi, e che la speranza, qualche volta, può non essere vana.

Anche quella speranza civile di un mondo del lavoro a misura di donna. Per due secoli abbiamo immaginato unaoikonomia – governo della casa – come se le donne non ci fossero. Dobbiamo cambiare, per il bene delle donne e quindi per il bene di tutti.