Donne e uomini: il servizio nella liturgia

Se, in conclusione, proviamo ad concentrarci sullo sviluppo che negli ultimi secoli hanno avuto i due “sacramenti del servizio” – ordine e matrimonio – possiamo scoprire che il dibattito recente mette in luce una sola grande questione. Ossia la riscoperta della “logica di vocazione” dei due sacramenti. In particolare possiamo riscontrare un fenomeno parallelo – ed opposto – che riguarda i due sacramenti:

a) Da un lato il matrimonio – istituzionalizzandosi progressivamente nel XIX e XX secolo – haemarginato il tema “vocazione e discepolato”, presupponendo astrattamente una identificazione tra livello naturale, civile ed ecclesiale. La recente riscoperta del profilo vocazionale è ancora troppo formale e poco riflessa.[1]

b) D’altro canto, il lavoro ecclesiale sulla ordinazione – a partire dai decreti tridentini sui Seminari – ha profondamente elaborato “vocazione e discepolato” del soggetto ministeriale, ma non di rado ha spostato “solo su quel piano” la attenzione formativa, trascurando dinamiche naturali e culturali di prima grandezza.

Questa asimmetria determina oggi diversi scompensi. In particolare chiede contemporaneamente una duplice integrazione:

– da un lato di recuperare la “logica di vocazione” del sacramento del matrimonio

– dall’altro di riscoprire la “logica naturale e culturale” del sacramento dell’ordine

Non è un caso che il Sinodo sulla famiglia, quello sui giovani, la Commissione pontificia su diaconato e donna attestino bene questo “travaglio vocazionale”, in cui poter configurare in modo più adeguato non soltanto la “formazione dei soggetti”, ma anche la corrispondenza della Parola di Dio alla esperienza e della esperienza alla Parola di Dio. Scoprire che il matrimonio non è solo “secondo natura”, ma illumina anche una “vocazione ecclesiale”, e che la vocazione ecclesiale al ministero comprende anche logiche naturali e culturali – di cui la tradizione ha saputo tener conto su cui e noi facciamo tanta fatica – appare oggi compito ecclesiale primario.

Su questo punto vorrei formulare infine “10 tesi”, per cercare di gettare qualche luce ciò che sta accadendo e che ancora accadrà:

  1. Sulla evoluzione della ordinazione, dovremmo dire che la presenza del “diacono uxorato” ha già portato la donna – ma solo in quanto moglie – in una certa quale “assunzione di responsabilità” per il ministero del marito. Questo semplice fatto, sia pure nella sua limitatezza e precarietà, ha comunque alterato le logiche rigorosamente celibatarieche hanno caratterizzato l’esperienza latina degli ultimi secoli.
  2. Ciò ha introdotto una variabile le cui implicazioni sono solo agli inizi e che deve essere integrata dalla acquisizione di una eminentia auctoritatis da riconoscersi alla donna, dopo che in campo politico, sociale e pubblico ci si è aperti a questa decisiva novità. Questa differenza è irriducibile: non si lascia comprendere sulla base di “modelli storici”.[2] A una riduzione “privata” dell’autorità femminile del mondo premoderno, il mondo tardo-moderno – non senza sbandamenti e distorsioni – ha saputo scoprire e sviluppare un profilo pubblico, sociale e politico della autorità femminile. Ciò muta inevitabilmente la disciplina e la dottrina dei sacramenti dell’ ordine e del matrimonio.
  3. La Chiesa non può semplicemente “subire” questo sviluppo. Deve assumerlo, orientarlo e dargli pienezza. Ma non può smentirlo in un movimento autoreferenziale e autoritario, magari citando – come autorità indiscutibili della tradizione – i pregiudizi medioevali sul maschile e sul femminile e, per di più, confondendo con essi il Vangelo e la Parola di Dio. Nulla di peggio può capitare alla Chiesa che piegare l’autorità di Dio a garanzia della resistenza dello status quo.
  4. Pertanto il “lavoro storico” e il “lavoro sistematico”, esercitato sul diaconato femminile o sulla vocazione matrimoniale, non possono mai esaurirsi uno nell’altro. Per usare le parole di R. Guardini, il metodo storico ci dice che cosa è stato nel passato, ma il metodo sistematico – e solo questo – può dirci che cosa dovrà essere nel futuro.[3] In altri termini, la storia non può essere l’alibi per non decidere e il riconoscimento di “cose nuove” non può mai essere escluso. È una possibilità interna alla Chiesa, garantita dalla iniziazione cristiana.
  5. Anche circa il matrimonio, quindi, una forte accentuazione “vocazionale” ha spesso costituito anche un “alibi” per non affrontare la questione femminile all’interno della Chiesa, chiudendola nella alternativa tra “moglie”, “madre”, “sorella” e “figlia”. Il necessario ripensamento del matrimonio dipende, non secondariamente, da una nuova soggettività femminile che abita la Chiesa da non più di un secolo. E che deve essere riconosciuto anche in vista della “vocazione al servizio ecclesiale”, per una rinnovata soggettività ecclesiale della famiglia e anche per un rinnovamento del soggetto ministeriale.
  6. Tale soggettività non sta soltanto in privato, e quindi non può essere giudicata soltanto “in foro interno”. La svolta che di recente, e con decisione, Amoris titia ha assunto nel concepire la pastorale familiare, ha ancora il limite di proporre una soluzione “in foro interno”, la cui articolazione comunitaria appare ancora esile e di cui si fa ancora fatica a considerare e a riconoscere l’impatto “pubblico”, al quale si dovrà provvedere anche giuridicamente.
  7. Ciò, d’altra parte, è coerente con una lunga e sapiente tradizione, che ha il limite di una gestione delle questioni che trova nella differenza radicale tra “foro interno” e “foro esterno” una logica antica e nobile, ma che non corrisponde più alla nostra esperienza relazionale contemporanea. Il tema della “identità femminile” fa esplodere le categorie medievali/moderne che ne avevano sottostimato il ruolo, proprio in una rigida opposizione tra “rilevanza privata e irrilevanza pubblica”.
  8. La forte resistenza della Chiesa nel superare questa irrilevanza dovrà elaborare il suo travaglio attraverso un accurato inventario di forme linguistiche e istituzionali più adeguate. Non solo in ambito familiare, ma anche in ambito ministeriale. Per non lasciarsi condizionare piuttosto dalle logiche della società chiusa che non dalla parola del Vangelo: per coniugare il Vangelo in una società aperta, nella quale la identità vive sempre di differenze, che tuttavia non possono essere predeterminate né teoricamente né disciplinarmente.
  9. Questa apertura alle nuovo identità non è né perdizione dell’uomo né negazione di Dio, ma è nuova e più profonda relazione al mistero. È il mistero di Dio e dell’uomo, del Dio fatto uomo e dell’uomo riconciliato con Dio, ad esigere che al ministero ecclesiale, e al ministero ordinato, possano accedere – in forme articolate – non solo uomini, ma anche donne. Se accettiamo una famiglia in cui la “patria potestà” è ora esercitata al maschile e al femminile, non possiamo rifiutare che la autorità ecclesiale – proprio quella stessa autorità ufficiale e formale, non una diversa o minore – possa declinarsi non solo al maschile, ma anche al femminile.
  10. Resistere nella antica negazione – fondata non sul giudizio ponderato di una chiesa aperta dallo Spirito, ma sul pregiudizio viscerale di una società chiusa – significherebbe, ormai, resistere ostinatamente non alle futili innovazioni della moda del momento, ma alla potenza profetica di una novità che il Vangelo prima suscita e poi impone.

Pubblicato il 2 settembre 2018 nel blog: Come se non.


[1] Un riflesso significativo di questo imbarazzo sta nella riconsiderazione della “fede” in rapporto al sacramento. Per un riconsiderazione di questa questione cfr. A. Grillo, Fede e Matrimonio. La teologia pastorale tra dogmatica e diritto canonico, “Sacramentaria & scienze religiose”, 26/48(2017), 145-161.
[2] Anche al Concilio di Gerusalemme la possibilità di “battezzare i pagani” senza passare per la circoncisione, era “priva di precedenti storici”. Non si poteva argomentare sulla base di evidenze precedenti, ma ci si doveva aprire ad una novità non prevedibile, attestata dalla più grande libertà dello Spirito.
[3] Cf. R. Guardini, Ueber die systematische Methode in der Liturgiewissenschaft, “Jahrbuch fuer Liturgiewisseschaft”, 1(1921), 97-108.

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