«De desolatione philosophiae»

“Lupus” di nuovo. Recupero. Su “Repubblica delle donne” (24/8, p. 130) lezione illustre del filosofo Umberto Galimberti: «Per morire serenamente non è interessante essere atei o agnostici, ma aver interiorizzato la cultura greca, secondo la quale i singoli individui non sfuggono alla legge della natura che (…) esige la morte delle singole esistenze». Ovviamente per Galimberti è scontato che «per morire serenamente» non è necessario essere credenti. Anzi: credere sarebbe solo illusione ingannevole. Leggi e, pur con rispetto, ti chiedi se qualcuno è mai stato accanto a un morente, e se veramente in quei momenti ha avuto l’idea preziosa di impartirgli una lezione abbreviata di «cultura greca». Chissà! A molti risulta che chi veramente è stato accanto, e tante volte, a persone morenti può dire che nonostante tutto – perché la morte è «l’ultimo nemico che sarà annientato», come insegna la fede (I Cor. 15, 26) – una morte serena è non solo possibile, ma anche frequente nella luce della speranza che fa sì che essa sia vista non solo come fine e pena, ma “sorella” e “fine” come passaggio alla luce e alla vita totale. Per singolare coincidenza due giorni prima su “Repubblica” (22/8, p. 26) ho trovato una lunga lettera di Irene Lucchesi su «La beata inutilità della filosofia». Vale di sicuro per tesi astratte e pregiudizi superbi. Ecco, per esempio: ancora Galimberti, sempre “Repubblica delle donne” (10/8, p. 130) ove leggi che la Chiesa «tra l’altro prese a condannare l’omosessualità solo a partire dal XIII secolo». A parte ogni riflessione doverosa (e rispettosa) sul «non giudicare» altre persone, la domanda è la seguente: ma Galimberti ha avuto mai notizie sui testi in argomento, proprio «tra l’altro» (e molto!) di San Paolo (I secolo) e Sant’Agostino (IV secolo)? Certa sentenziosa filosofia non è solo inutile, ma è – essa sì – ingannevole e dannosa. Unico dubbio: ci sono, o ci fanno?

avvenire.it