De André e la forza intatta della “Buona novella”

SERGIO TACCONE – Avvenire

Ci sono album che hanno tracciato la storia della musica d’autore. Tra questi, un posto di rilievo spetta a La buona novella di Fabrizio De André, uscito nel novembre di mezzo secolo fa, che ancora oggi si staglia come insuperato per i suoi tratti contenutistico- formali. A sviscerare questo disco arriva un saggio di Mario Bonanno, giornalista e grande esperto di canzone d’autore ( Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare, Stampa Alternativa, euro 15 – >>> acquista su Amazon a prezzo scontato).

Il primo fondamento è la portata dirompente del messaggio di Gesù che per primo (e da solo) ebbe il coraggio di sfidare il potere. Bonanno analizza ogni anfratto del concept di Faber, «album emblematico di quell’umanesimo aconfessionale e a-partitico che è la cifra indicativa delle ballate di De André», riepilogo inarrivabile di poesia civile su base umanista. Gesù rappresenta un tratto identificativo nella discografia di Faber insieme alla lunga schiera di sconfitti, derelitti, sfruttati e anime salve in direzione ostinata e contraria, servi disobbedienti alle leggi del branco.

Bonanno delinea sapientemente il quadro storico che portò alla gestazione dell’album: il biennio 1968-69, cruciale nel secondo Novecento. Anni che costituiscono «l’acme dell’idealità libertaria» di quel decennio e prologo virulento delle lotte sociali della decade successiva. Un progetto, basato sui vangeli apocrifi, arrangiato da Gian Piero Reverberi e con Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Flavio Premoli e Mauro Pagani (la futura Premiata Forneria Marconi) a curare le parti musicali insieme ad Andrea Sacchi ed Angelo Branduardi esecutore ‘non accreditato’ di un fraseggio di violino. L’album, arrivato dopo l’autunno caldo delle manifestazioni studentesco- operaiste e dopo il botto di Piazza Fontana che avvia la lunga stagione a mano armata, venne registrato a Milano, in uno studio ricavato all’interno di un teatrino parrocchiale, alquanto malmesso, di via Cinquecento, nella zona di Piazzale Corvetto, con le assi scricchiolanti e i musicisti costretti a non muoversi troppo per non far sentire il cigolio. Nessuno avrebbe scommesso su un album così apparentemente avulso dall’attualità. «Alla generazione del tutto subito e dell’assalto al cielo – ricorda Bonanno – interessava poco una storia vecchia quasi di duemila anni», non avendo compreso che per contrastare gli abusi del potere e i soprusi dell’autorità, Gesù si era fatto inchiodare ad una croce «in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali». L’autore sottolinea un punto: i personaggi tratteggiati da De André sono espressione di un umanesimo dolente e compartecipe al contempo, approdando a una dimensione interiore quasi misericordiosa. Come nel caso di Tito, uno dei ladroni crocifissi con Gesù, che prova dolore «nel vedere quest’uomo che muore». Il livore di Tito si stempera in un sentimento di pietà verso il Nazzareno che sulla croce si spegne come un uomo qualunque. Una pietas che per Faber è la vera redenzione del buon ladrone. Bonanno arricchisce il testo con le testimonianze di persone «informate sui fatti»: Vecchioni, Harari, Maisano e Germini. Un saggio completo su un disco che, 50 anni dopo, conserva intatta la sua forza.

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