Dante, 750 anni dalla nascita Ecco i Papi che lo celebrarono

ochi sanno che a Dante è stata dedicata un’intera enciclica papale. Era il 30 aprile 1921 e cadeva il sesto centenario della morte del poeta: Benedetto XV pubblicava In praeclara summorum, un’enciclica che, oltre a celebrare «la prodigiosa vastità e acutezza del suo ingegno», invitava a «riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina».

Una considerazione che fu alla base di un altro testo papale, emesso il 7 dicembre 1965, l’appassionata lettera apostolicaAltissimi cantus di Paolo VI. La data era significativa non solo perché ci si riferiva ai 700 anni dalla nascita del poeta, ma anche perché si era alla vigilia della chiusura solenne del Concilio Vaticano II e a tutti i Padri conciliari il papa aveva donato una copia della Divina Commedia quasi come testo sacro da meditare.

Con un’esclamazione intensa e fin ardente, Paolo VI dichiarava: «Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica». E del capolavoro dantesco esaltava non solo l’alta dimensione poetica ma anche la potenza performativa, capace di «cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso». Si deve ricordare che l’amore di questo pontefice per Dante è stato vigorosamente intrecciato con l’intera sua esistenza: è ciò che recentemente ha dimostrato Giuseppe Frasso, docente di Letteratura italiana presso l’Università Cattolica, in un articolo apparso sulla rivistaVita e Pensiero nel quale si conduceva «un sondaggio su due zone soltanto della vicenda umana di Giovanni Battista Montini, gli anni giovanili e gli anni del pontificato», per scoprirli segnati dalla presenza feconda di Dante.

Non per nulla in quello stesso anno centenario, e precisamente il 19 settembre 1965, Paolo VI aveva voluto inviare una croce d’oro da deporre sulla tomba del poeta a Ravenna, e il 14 novembre 1965 il Segretario di Stato, il cardinale Amleto Cicognani, accompagnato da circa cinquecento Padri conciliari, aveva collocato una corona d’oro nel Battistero di Firenze, «il bel san Giovanni» che aveva visto l’inizio della vita cristiana di Dante.

Ora, il prossimo 4 maggio, quando in Senato, davanti al presidente Mattarella e alle alte autorità dello Stato, si celebreranno i 750 anni dalla nascita, avrò l’onore di essere latore di un messaggio di papa Francesco che si accosterà ai suoi predecessori nella lode e nell’ammirazione per questo grande poeta e credente. Lo stesso pontefice, per altro, nella sua prima enciclica, la Lumen fidei, aveva raffigurato la luce della fede, che avvolge e coinvolge l’intera esistenza umana, attraverso un’immagine dantesca, la «favilla,/ che si dilata in fiamma poi vivace/ e come stella in cielo in me scintilla» (Paradiso XXIV, 145-147).

Anche Joseph Ratzinger nella sua opera teologica più nota prima di divenire Benedetto XVI, cioè l’Introduzione al cristianesimo, aveva evocato un passo dell’ultimo canto del poema dantesco: «Dentro da sé del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige,/ per che ’l mio viso in lei tutto era messo» (Paradiso XXXIII, 130-132). Con una libera applicazione vi aveva intravisto un autoritratto del poeta stesso: «Contemplando il mistero di Dio, egli scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formate da “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”». Certo è che, senza una seria attrezzatura teologica, la Divina commedia rimane una «selva oscura»: essa è pienamente valicabile solo tenendo fissa la stella polare della fede cristiana.

Una fede vigorosa e rigorosa, eppure libera e sincera, come attestano le severe critiche alla Chiesa del tempo. È, questo, uno dei tanti contrappunti che rendono il poema un testo supremo nella sua capacità di tenere in armonia perfetta gli antipodi. Pensiamo all’euritmia mirabile tra la poesia purissima e la più raffinata speculazione teologica. Oppure allo straordinario connubio tra l’assoluta creatività del genio poetico e lo stampo rigido dell’endecasillabo e della rima, come accadrà, in maniera analoga nell’eccezionale consonanza tra l’impeccabile e sofisticata tecnica musicale di Bach e le sue affascinanti architetture melodiche.

O ancora pensiamo all’interazione unica tra astrazione tematica e parola dipinta, come, ad esempio, accade nell’Antipurgatorio davanti a una schiera di anime che avanzano «come le pecorelle escon dal chiuso/ a una, a due, a tre, e l’altre stanno/ timidette, atterrando l’occhio e ’l muso,/ e ciò che fa la prima e l’altre fanno,/ addossandosi a lei s’ella s’arresta,/ semplici e quete, e lo ’mperché non sanno» (Purgatorio III, 79-84).

Potremmo continuare a lungo in questo elenco dei sorprendenti equilibri armonici della scrittura dantesca tra poli antitetici. C’è, infatti, anche l’arcobaleno delle sintonie tra storia e trascendenza, tra carnalità e spiritualità, tra contingenza ed eternità, tra epifania e mistero, tra peccato e grazia, tra tragedia e gloria, tra cronaca e profezia, tra giustizia e salvezza. In Dante si compie veramente la definizione del bello coniata da un altro grande poeta, Rilke, nell’avvio stesso delle sue Elegie duinesi: «Il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo».

In questa suprema “simbolicità” – nel senso etimologico del termine, ossia del «tener insieme» gli estremi – la traiettoria che regge l’intero itinerario terrestre, infernale e celeste di Dante è il transito «all’etterno dal tempo» (Paradiso XXXI, 38), è, in ultima analisi, il mostrare «come l’uom s’etterna» (Inferno XV, 85). Ed è in questa luce che diventa fondamentale la ricerca del volto di Cristo, uomo e Dio, quel volto che il pellegrino contempla nel velo della Veronica interrogandosi: «Signor mio Gesù Cristo, Dio verace,/ or fu sì fatta la sembianza vostra?» (Paradiso XXXI, 107-108).

E un grande lettore di Dante come Borges, in un suo testo intitolato appunto «Paradiso XXXI, 108», presente nell’Artefice (1960), rispondeva così a quella domanda: «Abbiamo perduto quei lineamenti… Possiamo scorgerli e non riconoscerli… Forse un tratto del volto crocifisso si cela in ogni specchio; forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutto in tutti».

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