Dalla Porziuncola ad Abbey Road

di DONATELLA FERRARIO

Da umile frate sulle orme di san Francesco a tenore di fama internazionale, inseguito e corteggiato dalle major discografiche e dalle televisioni. È la storia di fra Alessandro Brustenghi, la cui passione per la musica e il canto è stata così forte da superare le barriere del convento di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi: «Ho capito», dice, «che la voce è uno strumento che mi è stato dato per avvicinare le persone a Dio».

Fra Alessandro suona l'organo nella basilica di Santa Maria degli Angeli.

Fra Alessandro suona l’organo nella basilica di Santa Maria degli Angeli. Sullo sfondo, il santuario della Porziuncola (foto A. TOSATTO).

«Mi sono incamminato su per le colline, vicino a casa mia e mi sono steso a terra, su un prato. Non ce la facevo più e ho detto: “Va bene, adesso basta: Dio, se ci sei dammi un segno della Tua presenza e parlami”». Di fronte alla mia espressione interrogativa, Alessandro sorride: «Sì, qualcosa è successo», dice. Il suo è un sorriso ragazzino, che gli fa brillare gli occhi. Trentaquattro anni infagottati nel saio troppo leggero per il freddo che tira. Siamo in una piccola stanza spoglia del convento della basilica di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi. La voce dalle cadenze umbre di Alessandro, così minuto, rimbomba nello spazio disadorno e non c’è da stupirsene: lui è Alessandro Giacomo Brustenghi, il frate francescano che ha firmato un contratto con la Decca Records/Universal Music per incidere un cd, uscito il 15 ottobre scorso.

Fra Alessandro

Fra Alessandro (foto A. TOSATTO).

La voce di Assisi, questo è il titolo, è una raccolta di undici brani della tradizione religiosa, in cui Alessandro canta, tra gli altri, Panis Angelicus, Ave Verum di Mozart, ma anche Fratello Sole, sorella Luna, dal celebre film.

Il percorso di frate Alessandro, che da Assisi è giunto a Londra agli studi di Abbey Road (quelli dei Beatles, tanto per capirci), è lungo e tortuoso. La sua esistenza, scandita dalle mansioni di accoglienza dei pellegrini nella basilica, dai lavori di falegnameria, di insegnamento di canto e organo e, a volte, dal servizio in portineria, è approdata agli studi televisivi Rai, Mediaset, Bbc, Cbs, più decine di interviste a radio, giornali e riviste nazionali e internazionali.

Un'altra immagine di Fra Alessandro

Un’altra immagine di Fra Alessandro (foto A. TOSATTO)

Alessandro ormai sa che il Signore non gli risparmia le prove, sempre pronto a stravolgergli la vita, a chiedergli di più e ad aspettarsi che lui risponda. Lo incontro in una mattinata piovosa, con un vento gelido che fa rabbrividire i turisti sul sagrato della basilica. Frate Alessandro mi accoglie con il saluto dei francescani «Pace e bene» e mi fa attraversare un labirinto di corridoi, mentre parla con gioia del suo lavoro quotidiano, indica gli edifici del protoconvento in cui alloggiano i frati, l’orto, la mensa: una piccola cittadella aperta al mondo, uno dei cuori del francescanesimo. Lui nella terra di Francesco ci è nato: in un piccolo paesino vicino a Perugia, Castiglione della Valle, 480 anime, un vecchio castello medievale, tanta natura appena dietro casa e lunghissime camminate fin da bambino. Alessandro era un ragazzino studioso, affascinato dall’astronomia e dalla paleontologia. «I miei genitori non erano praticanti prima della mia entrata in convento: poi si sono convertiti e ora mio padre sta percorrendo il cammino per diventare diacono. Io andavo a catechismo e avevo una certa sensibilità per Dio, però era un’autoriflessione: in realtà ero molto affascinato dal mistero, dalla magia, volevo diventare un prestigiatore. Dopo la Cresima, a quattordici anni ho lasciato tutto. Mi sono detto: “Devo fare piazza pulita. Questo Dio è un’ideologia, si àncora a una mia tendenza al mistero, al misticismo”. Non avevo sperimentato l’incontro con Dio. Perché quindi non trovare altre forme che soddisfacessero il mio bisogno di mistero? Mi sono aggrappato alla fantasia, alla creatività: avevo iniziato a studiare musica, scrivevo, leggevo e mi piaceva tantissimo. Frequentavo l’istituto magistrale a sperimentazione musicale e poi il Conservatorio, come studente di organo e composizione organistica.

Un cartello nella strada londinese, famosa per gli importanti studi di registrazione

Un cartello nella strada londinese, famosa per gli importanti studi di registrazione (foto P. THOMPSON/EYE UBIQUITOUS/CORBIS).

Lessi La storia infinita di Michael Ende e ne fui impressionato per la connessione tra mondo dei sogni e mondo reale, fino a pensare che i miei sogni fossero realtà, al pari della realtà materiale. Poi arrivò la filosofia di Hegel con La fenomenologia dello spirito e mi sono detto: “È quello che fa per me, l’idealismo, il mio io che crea le cose che sono intorno a me”. Ho cominciato a pensare che tutta la realtà fosse una produzione del mio pensiero: e se tutto era una creazione della mia mente lo potevo usare a mio piacimento. Con tutti i pericoli e le derive connesse. Questo per un ragazzino era devastante, soprattutto perché si intersecava con le crisi adolescenziali. Ero alle soglie dell’esaurimento: sono stati momenti difficilissimi e devo ringraziare la mia classe, che mi è stata vicina e mi ha aiutato tanto». Fino ad arrivare a quella passeggiata in collina. Alessandro racconta di come Dio gli ha parlato: «Non erano parole ma un colloquio che non è possibile spiegare, una pienezza improvvisa, una luce. Gli ho fatto delle domande e Lui mi ha risposto. È stata una comunione con il Creato e io ne facevo parte. Dio non risponde a parole ma risponde nel cuore. Ho sentito che questo avvitarsi continuo del mio pensiero su sé stesso veniva rotto. Mi sono sentito piccolo, aperto alla creazione e al mondo che avevo attorno a me, ma non mi sentivo schiacciato. Percepivo questa presenza che mi amava in modo infinito e mi sentivo in comunione, una piccola particella in armonia con tutto il resto. È stata la scoperta dell’alterità: Dio era immensamente più grande di me e mi amava; la creazione era altro da me ma era per me; le altre persone non erano più proiezioni di me stesso ma persone da amare; l’arte stessa – la musica, la scrittura, la letteratura – un mezzo di amore. Questo è stato il fondamento del mio incontro con Dio: un’esperienza che ho poi continuato a vivere nei mesi successivi».

Alessandro nel laboratorio di falegnameria del convento

Alessandro nel laboratorio di falegnameria del convento (foto A. TOSATTO).

 

Alessandro, grazie a un amico, si riavvicina alla preghiera, ai sacramenti e alla figura di Gesù Cristo. «Mi capitò tra le mani una biografia di San Francesco e a scuola ci fecero vedere il film Francesco di Liliana Cavani. Mi sono sentito colpito nel profondo, mi sono riconosciuto in lui completamente. Quel suo rapporto intimo con la creazione, quel suo desiderio di essere più piccolo. E mi sono detto: “Questa è la vita che voglio fare: voglio diventare frate”. Avevo sedici anni. Ho provato una paura terribile che è andata avanti per mesi. Proprio in quel momento che mi riaprivo ai miei anni e pensavo a una carriera da musicista, a una famiglia… Era un tarlo che ogni tanto tornava e io lo scacciavo: “Via via, non ci devo pensare assolutamente. Già questo essere diverso: passare le ore a studiare musica… Ma perché Signore hai pensato per me quest’altra forma di vita? Questo è troppo!”, mi dicevo. Ho dovuto iniziare un processo di accettazione di me stesso e poi di accettazione della vocazione: mi sono dovuto fidare. È Dio che me lo chiedeva e io Lo ringrazio per tutto questo».

Un fan dei Beatles mostra la famosa foto dei Fab Four e posa davanti alle stesse strisce

Un fan dei Beatles mostra la famosa foto dei Fab Four e posa davanti alle stesse strisce
pedonali di Abbey Road (foto A. RAIN/EPA/CORBIS).

Il percorso per diventare frate è stato lungo: «Un primo anno da postulante, in cui si iniziano esperienze di accoglienza; poi il noviziato: si prende l’abito, conduci la vita da frate, di studio e di ritiro, poi prendi i voti per un anno e li rinnovi per almeno altri quattro anni. Cominci gli studi di teologia e l’apostolato. Alla fine degli anni di professione semplice, si fa la professione perpetua: ho preso i voti solenni nel settembre del 2009. Per arrivarci ho vissuto un periodo travagliato: nel 1999 sono entrato in convento, ho fatto postulantato, noviziato, poi sono uscito. Credevo che Dio mi chiedesse in realtà una vita più eremitica. Non è stata una crisi di fede, piuttosto una crisi riguardo alla forma di vita spirituale più adatta per me».

Così, dopo tre anni in convento, Alessandro lascia temporaneamente: «Ho cercato una via di fuga. “Adesso devi aspettare”, mi sono detto, “finché non ti sei chiarito”. Mi sono punito per i tre anni successivi. Ho finito il corso al Conservatorio, davo concerti da camera, cantavo nelle corali, facevo restauri: ero autonomo, non chiedevo mai soldi ai miei genitori. Ma una serie di “Dioincidenze”, come le chiamo io, mi hanno fatto capire che il momento per rientrare era arrivato. È stato duro: un atto di fede». E il canto? «Ho iniziato a studiarlo a diciotto anni. Avevo una vicina di casa che era un soprano lirico straordinario. A fare il cantante proprio non ci pensavo. Collaboravo con il coro e basta. Finché il 30 aprile 1996 faccio domanda per iscrivermi a canto. La mia vicina mi dava lezioni: mi presentavo come baritono, falsificavo la voce… Arrivai ottavo in graduatoria: sono convinto che mi abbiano preso perché ero giovane, italiano – erano tutti coreani – e abbiano detto “proviamoci”. Mi hanno anche detto di dimenticarmi completamente di tutto quello che sapevo del canto. Col passare dei mesi diventavo un po’ più intonato ma la voce non veniva fuori: volevo fare il tenore barocco, cercavo di produrre una voce chiara e imitavo. In più la mia formazione musicale era molto scientifica, lo studio dell’organo è molto tecnico. E credevo che anche il canto lo fosse. Mi dicevano di cantare sul serio, di esprimermi, ma non ce la facevo. Concepivo la musica come l’organo, come qualcosa di esterno a me. Ma la voce è lo strumento, è interno a me.

Se c’è qualcosa in me che non va, traspare. Dovevo mettermi in ascolto della mia voce. Nei primi due anni avevo fatto pochi progressi: la voce era ancora bassa. Il terzo anno iniziai a studiare sul serio, la mia insegnante era sempre più severa e faceva bene. “Devi sentire quello che canti, lascia stare la tecnica se per te la tecnica è un ostacolo. Ma non lo senti dentro al cuore quello che canti?”, mi urlava. Così, poco per volta, mentre andavo a pregare su per le colline dietro il mio paese, nei boschi, mentre facevo la salita, a passo sostenuto, con respirazione bassa, cantavo: il diaframma e gli addominali dovevano funzionare. Finché un giorno sento che la mia voce esce, che il diaframma si apre: “Ma che voce è?”, mi dico, “non mi piace!”. E l’insegnante: “È bellissima, così devi cantare!”».

Arriviamo così ai giorni nostri, a quest’ultima prova, il contratto con la Decca: «Volevo dire di no. Non fa per me. Volevo un po’ di tranquillità. Gli amici mi hanno fatto capire che era Dio che mi stava chiedendo qualcosa. I superiori non hanno battuto ciglio e hanno detto subito di sì. Era una missione. Riconosco che quando canto succede qualcosa che mi travalica: per me il canto è entrare in un altro mondo, è come se Dio mi desse una chiave che apre una porta per il Paradiso e io ci sono dentro: grazie al canto è come se tutte le persone che ascoltano possano comunicare con Dio tramite me, che faccio da vigile. Io stesso mi stupisco del mio canto, capisco però che sono solo alla regia, il vero attore è Lui, e tra Dio e la gente si istituisce una relazione d’amore. È una cosa che mi supera».

Come è stato possibile che Mike Hedges, il produttore degli U2, The Cure, Manic Street Preachers, sia venuto a conoscenza di Alessandro?

«Anche in convento continuavo a cantare, portavo avanti al minimo l’attività concertistica, fino al 2010, quando feci un concerto privato: qui mi ascolta un’insegnante di canto che mi dice: “Tu dovresti farti sentire da qualcuno”, e io le dico: “Ma sono messo così male?”. Un giorno mi chiama e mi dice che a casa sua viene un manager da Londra che mi vorrebbe ascoltare. Faccio un’audizione senza avere idea di dove mi stessi cacciando. Alla fine questo manager mi chiede: “Sei contento se parlo di te alla Decca?”. Dopo un po’ mi arriva una mail: vengono a fare un’audizione con la Decca e inviano poi i brani a Londra. Alla fine la Decca vuole fare un cd con me. È qui che inizio a spaventarmi sul serio, quando mi rendo conto davvero… Parlo con i miei superiori nella speranza che mi dicano di no. I media, le registrazioni, le apparizioni in Tv: non voglio tutto questo, voglio una vita tranquilla, mi fa paura perfino viaggiare. Mi dicono: “Vai perché è evangelizzazione”. Ho capito che era un’altra prova del Signore, che dovevo usare la voce come uno strumento, qualcosa che mi è stato dato per avvicinare le persone a Dio, far sentire la Sua voce. Così sono andato a Londra, negli studi di Abbey Road…». Frate Alessandro sorride sereno: «La mia voce non mi è mai piaciuta: volevo una voce acuta da tenorino leggero e mi sento questa voce da tenore lirico pieno. Non mi piace il timbro… Non dico che è brutta: dico che non mi piace. Sento tutti i miei difetti, anche quelli che non sentono gli altri. Sono un perfezionista: mi sembra sempre di aver fatto il lavoro a metà. A Londra negli studi mi hanno detto: “Lavoriamo da anni in questo campo e di voci perfettamente perfette ne abbiamo sentite a centinaia ma sono tutte perfettamente noiose”. Forse quello che interessa è un’altra cosa».

Donatella Ferrario

jesus gennaio 2013