Da Perugia ad Assisi. Palude e voglia di futuro:”I Care” e la cultura della pace

FIRENZE-ADISTA. “La nostra è la scommessa di stare con il popolo della pace, con il popolo degli emarginati, con il popolo della solidarietà. Sono rischi, sfide, scommesse, se vuoi, alle quali ti chiediamo di aderire, sulle quali non io, ma la storia ti chiede di metterti in gioco. Senza di te, senza la tua voglia di futuro, senza la tua speranza, senza la tua ricchezza e creatività, non nasceranno linguaggi nuovi, braccia aperte; gli uomini di buona volontà non comunicheranno, le voci flebili saranno sepolte. Pensa un po’, vogliamo portare il nostro granello di sabbia per costruire la solidarietà, pensare all’oggi, a partire dal futuro, dall’utopia. Parlare con tutti e agire con chi è preoccupato per l’uomo”.

Scriveva così don Giuseppe Stoppiglia nell’aprile del 1991, all’indomani della Guerra del Golfo.

Parlava di corsa, perchè il suo cuore stava: “scappando dalla palude”.

Nel 1991, con le luci delle bombe nel cielo notturno di Baghdad negli occhi e nella mente, anche se non si camminò, si ricordavano i trent’anni dalla prima marcia per la Pace e la nonviolenza Perugia Assisi, promossa da Aldo Capitini.

Stoppiglia, prete operaio, formatore della Cisl, continuava:

“L’orizzonte etico delle nostre società risulta configurato sui paradigmi del cinismo, dell’opportunismo, della difesa a oltranza degli egoismi di casta, impermeabili ad esigenze di giustizia e di solidarietà”.

La mia mente non può non tornare anche alla Marcia del 2001, all’indomani del G8 di Genova, dell’11 settembre, dell’intervento in Afghanistan. Ad un cammino condiviso, plurale, profondo, partito dai confini d’Europa e, allora, di Schengen, tra Gorizia e Nova Gorica, con il No Border Social Forum.

Scriveva ancora Stoppiglia sul periodico dell’associazione Macondo in un articolo intitolato: “Palude e voglia di futuro”: penso che dobbiamo scoprire nuovamente il volto di Dio che non è quello di ieri, ma quello che noi domani scopriremo diverso.

Questo è il senso vero del cammino, dell’etica del viandante, dello spezzare ogni giogo, consapevoli delle nostre ferite, delle nostre contraddizioni, del nostro bisogno di digiuno in questo tempo istantaneo e spesso riempito di vuote parole.

Questo è, invece, il senso del Kairòs, il tempo opportuno, circolare. Quello che dalla memoria del passato ci fa presenti al nostro presente e ci riporta nel futuro: campo aperto di possibilità e di scelta.

Un campo aperto in cui risuonano le domande scritte sulla rivista Cisl Il Progetto, esattamente quarant’anni fa, nel novembre del 1981,dal sindacalista Pippo Morelli, allora segretario dell’Emilia Romagna:

“Dove sta – scriveva Morelli, insieme ad Augusto Giorgioni, l’interesse dell’iniziativa sindacale per produrre conflittualità e proposte alternative a chi ha interesse alla guerra? Dove sono le proposte e le iniziative per creare una “cultura della pace”, dove pace non sia intesa solo come assenza di guerra? Come si misura la capacità del sindacato di operare contro la guerra offrendo a quegli operai e a quei tecnici che producono armi un lavoro alternativo che non li obblighi a schierarsi di fatto, con i regimi reazionari che acquistano armi dall’Italia?”

Per essere credibile, scrivevano Morelli e Giorgioni, nel loro intervento, intitolato: “Per una cultura della pace”, il sindacato che manifesta per la pace deve anzitutto battere la passività costruendo e lanciando ipotesi praticabili di lavoro e di riconversione: aumentare il fatturato civile e ridurre quello militare”.

Per i due sindacalisti cislini manifestare, camminare per la Pace, significava affrontare, fin da subito, queste questioni, un cammino in salita, che si nutriva anche del senso della promozione autentica del servizio civile e dell’obiezione di coscienza, così caro, ad esempio, a don Lorenzo Milani.

Questo tempo e questo cammino, nella pandemia, ci ricordano che dobbiamo guardare l’orizzonte proprio dalla periferia di Barbiana e delle mille Barbiane nel mondo.

A partire, solo per fare un esempio, da quella rotta balcanica che grida nel nostro silenzio.

Solo così: “Mi importa, mi sta a cuore, mi prendo cura”, sarà davvero il “nuovo nome della Pace”. Di una nuova cultura praticata della Pace.

E non una ulteriore, cinica, esibita, evanescente parola vuota.