Cristianesimo e nuova post-modernità

di: Michele Lasala (a cura)

cristianesimo oggi

Michele Lasala intervista Francesco Postorino sul cristianesimo nel contesto attuale di una nuova post-modernità. Postorino ha approfondito le sue ricerche presso l’Università Paris 1-Sorbonne e si occupa di neoidealismo italiano ed europeo e di socialismo liberale. Tra le pubblicazioni recenti: Carlo Antoni. Un filosofo liberista (pref. di Serge Audier), Rubbettino; Democrazia in Lessico Crociano, La Scuola di Pitagora; Bobbio et le marxisme, Droit&Philosophie.

Benedetto Croce, nell’articolo Perché non possiamo non dirci cristiani, del 1942, scriveva che il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto, e questo perché ha spalancato all’uomo l’universo della sua interiorità. Questa rivoluzione, per Croce, operò nel centro dell’anima e nella coscienza morale. Io credo che, oggi più che mai, quell’articolo possa – e debba – essere riletto e rimeditato, se consideriamo il fatto che proprio la sfera dell’interiorità è messa in pericolo (Lasala).

  • Sei d’accordo?

Quel saggio ospita una sincera e intelligente adesione al profilo culturale dell’Occidente, e non ne nascondo l’importanza; ma quelle parole non scendono in basso, non sfiorano l’altrove, non si pronunciano sul senso della cristianità, perché si rivolgono più all’intelletto o al consueto rumore della polemica che al cuore. Non dimentichiamo che, per Croce, la storia che accade è l’Assoluto, o Dio.

Per un cristiano, al contrario, la storia è la mia occasione di pronunciare il “sì” a un volto sospeso tra il tempo e l’eterno, e che mi permette di incontrare il tu. Anzi, non sono io che incontro il secondo pronome, ma Cristo che riposa in me, che urla, piange e sorride in me.

Io non sono più io, ma divento Cristo fa. Ecco perché ha ragione il teologo Karl Rahner quando dice che il cristiano del futuro o è un mistico oppure non è niente. Avere Cristo dentro non significa mostrarsi “posseduti” o indiavolati, anche perché la tua umanità non si sposta di una virgola. Ma l’amore che senti acquista una maggiore consapevolezza, la tua coscienza preferisce viaggiare negli spazi non monopolizzati dal criticismo kantiano, e la tua fragilità ha un nome e un impulso di speranza.

  • Cos’è, in breve, il cristianesimo?

Una relazione di amore con chi mi ha donato una Parola eterna e, con essa, mi permette di visitare gli occhi e la biografia del mio prossimo. Una relazione verticale e orizzontale che si nutre di tensioni, di scarto, di buio, di crisi, di intervalli che soffiano luce inedita nella storia. Una relazione che vuole la vita e rifiuta l’incubo di una morte infinita. Una relazione guidata dall’impossibile e che situa al centro il Cristo fa.

Il Cristo dentro è un Cristo in uscita. Non vi è contraddizione. Il Cristo dentro risponde alla dolce dialettica che impegna il mio nuovo io in un continuo combattimento fra la mia naturale volontà e il disegno dell’amore, fra l’egocentrismo e lo svuotamento di sé per… Cristo in uscita, infatti, significa che, appena lo tocco, non vedo l’ora di consegnarlo alle tue miserie. Ecco perché non può esistere un Cristo dentro senza un Cristo in uscita. Il Cristo dentro è già un Gesù che fugge da ogni pericolosa staticità o dal cosiddetto “demone del Mezzogiorno”. Ma Cristo in uscita non vuol dire Cristo fuori.

  • Qual è la differenza?

Il Cristo in uscita si accende quando irrompe il Cristo dentro. Se io ho Lui e sento il profumo della croce, faccio fare l’amore a Gesù con te in questo preciso istante, dove il tempo ignora le regole del Chronos di Anassimandro e predilige la fame del Kairos.

L’irruzione del Cristo

Il Cristo fuori, invece, è un Cristo che non dimora nel mio essere, un Cristo esterno e occasionale, un grande Ente che non comunica, un quadro mai esplorato. Il Cristo dentro e in uscita vince il mondo attraverso l’inedito del Cristo fa; mentre il Cristo fuori soccombe alla normativa/mondo.

  • Il Cristo fa è la replica migliore alla società materialista e capitalistica di oggi?

Il Cristo fa vince il mondo attraverso me. Il mondo è l’insieme dei miei puntini neri e vecchi che annebbiano il secondo sguardo e mi inchiodano nell’odio e nella logica-mondo che mi vuole lupo di mio fratello, tiranno e princeps per qualche dollaro in più. Il Cristo fa mi rende mistico della quotidianità, cioè una persona continuamente rinnovata, non perché io abbia meriti, talenti o perché sono bello e sapiente, ma in quanto Lui dimora nel mio spazio segreto e sconfigge i prodotti della terra intonando la bellezza e l’odore della verità. Oggi devo far fare a Cristo quel che io, nella mia debolezza hobbesiana, non posso fare. Ma non basta dirlo!

Credo che questo sia il tempo dell’azione/più. Non l’azione ordinaria di chi gode della serenità che non tocca, ma l’azione che fa un secondo evento e libera…, quella che mi permette di muovermi con Lui e verso di te. Se la mia parola è più lunga del mio sentire, torno al punto di partenza e sposo nell’estrinseco la cristianità, tifando ad oltranza per riti e folklore.

  • Quindi, mi sembra di capire, vi sono due tipi di cristianesimo?

La differenza, a mio parere, risiede fra il “mistico della quotidianità” e il “cristiano moderato”. Il primo, che prima annunciavo, non è un alieno, uno strano che parla con Dio dalla mattina alla sera, fa rosari sotto la doccia e magari elude l’incontro normale con i suoi simili.

Il “mistico” di oggi è chi ha vinto la sua ombra o il delirio di onnipotenza, e si veste del “Figlio dell’uomo”. Il mistico mangia, scherza e lavora come chiunque altro, solo che il suo io cede il posto a Cristo. E chi ha Cristo dentro non si arrabbia, non scambia il suo viso con una maschera pronta alla guerra, alle crociate, ai fondamentalismi della spada, dell’oratoria o degli stupidi scambi social.

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Chi ha Cristo dentro non vuole vincere, non vuole arrivare primo, non rinforza la sua immagine, non si colloca al centro, non si diverte con le armi dell’individualismo proprietario, non confonde la Parola eterna con proposizioni di odio e di vendetta, proprio perché anela al Cristo in uscita e alla trasmissione imperfetta del mistero.

Nessuno è Gesù, nessuno dunque è perfetto! Nella direzione mistica, infatti, si incammina chi avverte in sé la sfida tra la sua volontà e quella di Cristo: più mi arrendo al suo messaggio (Cristo fa) e più mi affaccio al senso cristiano. Certo, ciascuno di noi naviga nelle notti del tormento a volte senza neppure un salvagente che dia sostegno. Ci si sente soli, delusi, abbandonati, non si sente più il brivido, il mistero assume le sembianze di un castigo, la Provvidenza diviene un nome appiccicato al buio che non guarisce. Nessuna preghiera consola. Nessun atto illumina. E la nostra notte rischia di intercettare il nichilismo di tutti i tempi.

Poi accadono strani velocismi: in un attimo parcheggi la croce fuori casa, dove nessuno può vederla, l’attimo dopo cerchi la luce e ti senti finalmente a disagio con il linguaggio/mondo. Questi sono, appunto, i combattimenti che non terminano mai. Nessuno è Dio! Nessuno sa davvero! Oggi è notte (l’oggi dell’uomo), oggi è mattino (l’oggi di Dio).

Il mistico contemporaneo non è una persona sicura, certissima di tutto e del suo manifestarsi. Egli deve fare i conti con il teatro della post-modernità e accarezza la vittoria sul mondo quando il suo urlo esistenzialistico, ai confini del disincanto, apre le porte all’altrove e dice “mi fido!”.

Il mistico

Vi è, però, un’altra direzione, quella del cristiano moderato, cerimoniale o seduto, che legge Dio come un Ente fra altri enti, ovvero un mio aggiornamento del curriculum esistenziale. Un Dio che vien tirato in ballo solo al momento del bisogno. Un Dio/imprenditore che deve darmi qualcosa, altrimenti non lo riconosco.

Un Dio che ci fa paura. Un Dio/Faraone che ci castiga se sbagliamo o ci premia perché siamo stati gentili in qualche frammento della nostra giornata. Tutti noi cadiamo in questa “orchestrazione religiosa”, me per primo, e spesso non ci rendiamo conto di quel Dio/amore, annunciato nella prima Lettera di Giovanni, che può essere amato e sentito nel profondo solo dal mistico.

  • Chi può essere il mistico oggi?

Chiunque! Il “mistico della quotidianità” è pronto a morire per non far morire Dio. Può scivolare, ma poi si rialza più “sconfitto” di prima. Il mistico perde per premiare te, si abbandona per non abbandonare, si fa “pennellino” per dipingere il volto di Gesù nelle anime che lo inseguono, com’è accaduto alla splendida Teresina di Lisieux. Vive in società e può essere un medico, un ingegnere, un filosofo, un carpentiere, un contadino, un politico (es. Giorgio La Pira), un sacerdote o una suora (es. suor Clare Crockett), solo che agisce con un secondo sguardo e il cuore rinnovato. Gesù dentro, inoltre, non anticipa solo il Gesù in uscita, ma anche il Gesù in mezzo.

  • Una terza dimensione?

Quando te lo consegno impazientemente (Cristo in uscita), si introduce nel senza-tempo uno spazio (Gesù in mezzo) che fotografa lo stupore di una relazione orizzontale fra l’io rinnovato (Gesù dentro-in uscita) e il tu che domanda. Il Gesù in mezzo, dunque, è il respiro-madre che unisce e divide due anime. Senza Gesù in mezzo io non posso conoscere i tuoi luoghi, la tua essenza, la tua paura, il tuo sogno, il tuo desiderio di amare e farti amare. Così le nostre umanità restituiscono alla Verità il suo pane.

Gesù dentro-in uscita e il Gesù in mezzo suonano come infinita prerogativa del mistico contemporaneo, di chi sconfigge la logica/mondo con una tripartizione che ha un solo significato, un solo nome, un solo volto.

È importante insistere sul fatto che il mistico odierno non è un cristiano esagerato, ortodosso, fazioso o post-umano. Ma è il vero cristiano! L’alternativa è il “cristiano soft” incatenato alle prigioni del mondo, schiavo del successo, del protagonismo mediatico e della volontà di potenza. Chi sente il Vangelo fino alle radici è un mistico!

  • Tornando alla prima questione, ti chiedo perché non possiamo non dirci cristiani. A mio modo di vedere, il cristianesimo è talmente radicato nella nostra cultura a tal punto che negarlo significherebbe anche negare Dante, Michelangelo, Raffaello, Manzoni… la nostra storia e la nostra civiltà.

Non sono d’accordo con un’asserzione che rivendica titoli di appropriazione e identità. Il piano ermeneutico di discussione deve essere un altro per un credente. Tertulliano ricorda che non si nasce cristiani, ma si diventa.

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Preferisco di gran lunga la definizione (non definizione) di Romano Guardini, il quale sostiene che sarebbe addirittura più giusto dire, fino all’ultimo momento, “vorrei diventare cristiano!”. Ciò indica la verità in fieri che viene assaggiata da chi si converte ogni giorno al grido inesauribile dell’ora nona.

Il cristianesimo è un’offerta che il mio intrinseco può accogliere oppure no. Bisogna restare in questo aut-aut: una scelta che può trasformare il mio istante. Devo decidermi se inseguire la “morte di Gesù” oppure la “morte di Dio”.

A proposito di “morte di Dio”, il XX sec. è stato contrassegnato dal nichilismo, quel senso del nulla che ancora oggi pervade le nostre vite con le sue fitte ombre. Già Nietzsche sul finire dell’Ottocento ne La gaia scienza, in un ormai noto aforisma, faceva urlare a un folle, in pieno giorno e al mercato, proprio che Dio era morto. E questo perché gli uomini della modernità hanno via via distrutto i fatti della metafisica e li hanno sostituiti con le interpretazioni, e la verità è risultata così un grande inganno.

Noi, uomini contemporanei, oramai diamo per assodato che non vi sono certezze assolute e che soprattutto non c’è nulla oltre l’esperienza mondana. Ma la cosa più terrificante è che questo nulla non spaventa più. Non è più vissuto come un dramma. Anzi si potrebbe perfino dire che gli uomini vivano in un costante divertissement di pascaliana memoria e, ubriacati dalle distrazioni mondane, più che vivere, si lasciano vivere (Lasala).

Nei Four Quartets del 1959, il poeta T.S. Eliot ci ricorda che: « […] i capitani, i grandi banchieri, gli eminenti letterati, i generosi mecenati dell’arte, gli statisti e i sovrani, distinti impiegati statali, presidenti di molti comitati, industriali e piccoli mediatori, tutti vanno verso il buio […] e noi insieme a loro».

Con la morte di Dio, del resto, muoiono le condizioni storiche e trascendentali dell’uomo-cielo, di colui che può vivere partendo dal linguaggio misterioso della morte di Cristo. Vorrei riprendere la battuta finale e provocatoria della risposta precedente.

Gesù che muore

Occorre scegliere tra la “morte di Gesù” e la “morte di Dio”. La morte di Gesù è l’inizio della seconda vita, il gusto di una seconda possibilità che finalmente posso sperimentare, il desiderio di decentrarmi, di annullarmi con il sorriso di nessun tempo, la scelta di rivivere i chiodi perché Lui l’ha fatto per me senza che io glielo chiedessi, la strada che conduce alla tua porta, la voglia di scendere con spregiudicatezza in te, come Gesù ha fatto con la samaritana.

Gesù, infatti, detesta il politicamente corretto, non è un formalista o un uomo dalle buone maniere. No! Lui entra a gamba tesa e scava nelle ferite più profonde. Non dà soluzioni, ma sta con me. Il suo sentirsi abbandonato nell’ora nona è il mio sentirmi abbandonato, il mio smarrirmi nelle peripezie del silenzio e dell’angoscia. Lui lo sapeva, per questo urla l’abbandono. Non tradisce, e ci invita a mostrarlo agli altri e vuole che altri lo mostrino nuovamente a me, con Lui che gioca in mezzo tra le mie inquietudini e le tue domande.

La morte di Dio, invece, è un deserto senza acqua né meta, il buio che inizia già in questa vita. La morte di Dio è l’estinzione dello spazio entro il quale posso affidarmi alla luce inedita. Quando Dio muore, realizzo una nuova crocifissione di Gesù – che non è la “morte di Gesù” nel senso spiegato prima – e faccio resuscitare le ambizioni di un superuomo che riposa nel mio istinto di sopraffazione. Se Cristo vince il mondo con la sua morte, con la morte di Dio/Padre subentra, al contrario, quell’Übermensch che attende il momento propizio per vincere nel mondo.

La morte di Gesù indica lo spegnimento del mio volerti dominare, e mi suggerisce con amore l’Amore dell’inaudito. Io posso morire per te e ridurmi a un niente, poiché Lui si è ridotto a niente. E solo un niente può finalmente incontrare l’essenza del tu.

Con la morte di Dio, per converso, io posso ucciderti, comprarti, oppure abbandonarti ai margini del dolore più oscuro, o ancora potrei dirti che pregherò per te e che ti affido alla Provvidenza, mentre al contempo non ti sento, non ti guardo, non ci sei, non hai un volto, dato che ho eliminato il volto della Verità dal mio cuore. In fondo, basta un attimo per passare dalla morte di Gesù alla morte di Dio, cioè dalla luce alle tenebre, dalla Verità alla menzogna.

  • Se ho ben capito, la morte di Gesù, che distingui dalla morte di Dio, è la Verità senza tempo, il mistero che oggi fa fatica ad emergere. Non ti sembra che, oltre alla morte di Dio, segno dei tempi, si possa a buon diritto parlare anche di “morte dell’uomo”?

Oggi la morte di Dio tende a scavalcare la morte di Gesù in modo scioccante. Uno scandalo che rischia di trionfare sullo scandalo del crocifisso. Anche se è bene insistere, secondo me, sulle lotte interiori e provare a far poca sociologia. Oggi – l’avverbio adottato dodici volte nel Vangelo di Luca – devo impiegare la scelta fra due morti incompatibili: la morte di Gesù mi permette di spegnere la sete di dominio e mi offre un’altra sete tutta da sperimentare; la morte di Dio mi fa bere la stessa acqua della finitudine, intristisce il mio cuore e mi lancia alla ricerca di un dio al minuscolo che fabbrico con mano rozza o intelletto “sapiente”.

La morte di Gesù invoca la morte (positiva) dell’uomo, quella che agogna lo spettacolo dell’infinito; la morte di Dio corteggia la morte (negativa) dell’uomo, quella che mi fa esibire i muscoli e lottare contro di te nel mio oggi, per poi consegnarmi a una disperazione perpetua e senza voce.

Il “fanciullo” di Nietzsche si è aggiudicato la partita a scapito del “cammello” e del “leone”. La sua innocenza deresponsabilizzante è pronta a esprimere un “sì” potentissimo alla terra e a un eterno ritorno dell’uguale nulla. Il nichilista che ha ucciso Dio è un fanciullo che accade nell’insensato e ride di ogni cosa, soprattutto della morte di Gesù.

In nome della laicità – e, se vogliamo, anche a causa di questa “innocenza deresponsabilizzante” –, si è arrivati a togliere i crocifissi dalle aule scolastiche. Nella nostra epoca ognuno deve sentirsi libero di professare o non professare una religione. La questione però è ancora più complessa, perché togliere il crocifisso non è un atto di libertà, bensì un’azione violenta contro la nostra stessa cultura, contro il significato del messaggio di Cristo, che è universale proprio perché smuove lo spirito dell’uomo.

Negare il cristianesimo è negare il principio su cui esso si fonda: «ama il prossimo tuo come te stesso». Non vedere il volto di Gesù è non vedere il volto dell’uomo; e il volto dell’altro, inteso come apertura e come infinito (Lévinas) non desta più in noi nessun interesse. Non sentiamo più alcuna responsabilità nei suoi confronti e siamo diventati sordi all’appello della sua presenza. Non siamo più in grado di compiere una rivoluzione simile a quella che compì Cristo quando «vide» Zaccheo in mezzo alla folla e lo chiamò per nome (Lasala).

  • Fu la prima volta che quell’usuraio si vide nella sua dignità di uomo. Tu come interpreti questo nostro rifiuto del volto di Gesù?

Vi è nell’aria molta stanchezza e disincanto. Il vento che «soffia dove vuole» fa i conti con il vento dell’indifferenza che spara contro l’impossibile. Perché la fede in Gesù è l’occasione dell’impossibile. Le nostre categorie, l’appercezione kantiana, le nostre abitudini non possono contenere il suo mistero. Ecco perché preferiamo condannarlo di nuovo con Pilato, piuttosto che amarlo.

Disincanto

Il mondo suggerisce il possibile e noi gli crediamo. Gesù ci esorta all’impossibile e pertanto lo respingiamo.

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Ci fidiamo del primo battito, del primo compromesso, della prima risposta. Non ci fidiamo della possibilità dell’impossibile: la raffigurazione di un castello interiore ed esteriore (come hanno detto due mistiche), nel quale l’impossibile diviene vita.

E questo impossibile che diviene vita, in effetti, può soltanto accadere se l’uomo comincia a guardare dentro di sé, riscoprendo quella umanità o quella spiritualità che ha purtroppo dimenticato proprio con il suo “sì” alla terra. Ma non quella umanità o “autenticità” di cui parlava Heidegger, che si risolve nell’angosciante nulla, bensì quella che invece si rivela essere – come sosteneva Luigi Stefanini – imago Dei: immagine di Dio (o il “Cristo dentro”, come dici tu) in quanto creata da Dio.

Solo così l’uomo non potrà più essere inteso come un «essere-per-la-morte», ma come un essere per la vita, per l’amore e per l’altro. Insomma, un’apertura sull’impossibile che rifiuta l’accettazione del limite – e della morte – quale unica dimensione possibile per l’esistenza. E, in un certo senso, quella bella frase di Guardini che tu prima ricordavi si accorda con la posizione di Stefanini, perché in fondo voler diventare cristiano significa voler scoprire, giorno dopo giorno, quel Dio che è già dentro di noi, in un percorso che è sì interiore ma capace allo stesso tempo di spianare la strada verso la “possibilità dell’impossibile”, creando un ponte tra me e te al di là di ogni indifferenza. Un percorso che, a ben guardare, richiama anche le riflessioni della Stein sul valore della persona.

Ma il dramma del nostro tempo pare essere l’agnosticismo. Si tende a credere soltanto a ciò che è possibile attestare, verificare. Se c’è un altrove oltre l’esperienza non è dato conoscere. Se c’è un Dio o un Principio al di là dell’accadere non è questione di cui ci si debba preoccupare. Viviamo in una sorta di gaio “non so”, perché l’ignoto non è più motivo di interrogazione (Lasala).

  • Come interpretare questo nostro agnosticismo che si sottrae alle domande più radicali?

L’agnosticismo è la religione della prudenza. Se io non so, se non riesco a vederti, a toccarti, a intercettare le tue smorfie, i tuoi rimproveri, la tua approvazione o la tua stretta di mano, come potrei convincermi della tua esistenza? Comprendo le ragioni dell’agnostico. Anch’io la pensavo così, e i miei volumi precedenti – specie l’ultimo del 2018, dal titolo L’altro Croce. Un dialogo con i suoi interpreti – si cullavano sull’importanza del Sollen kantiano o di quello “azionista” enunciato nel secolo scorso, insomma sul perfetto “dover essere” dagli accenti cosmopolitici che non può coincidere con la grigia contingenza (mondo/storia), elogiata in vario modo dalle correnti filosofiche dello storicismo.

Non rinnego il brivido di voler cambiare le cose. Tutt’altro! Ma il principio primo, il fondamento da cui promana ogni possibilità/impossibile non può rinchiudersi in un condizionale privo di calore; altrimenti la rivoluzione non sarà mai autentica, e l’unica che non può fallire è quella del cuore.

  • Il “non so” non può migliorare il mondo?

Al contrario, l’agnosticismo può migliorare il mondo! Il punto è se riesce a vincerlo, e la risposta è no! Per vincere il mondo, serve Cristo, occorre un corpo, una verità che si fa domanda. Solo un volto, infatti, può permettermi di sentire un altro volto.

L’agnosticismo moderno e contemporaneo costituiscono la variante negativa dell’incertezza; la fede cristiana, invece, rappresenta la variante positiva dell’incertezza. Chi ha fede, infatti, non ha alcuna risposta in tasca. Semplicemente si fida. Non può vedere con chiarezza se accende gli occhi dei sensi. Ha fede chi antepone la pazzia di un mistero all’insipida ragionevolezza del mondo.

La differenza fra il credente e chi si muove nel perimetro agnostico è che il primo non sa e tuttavia avanza nell’inesplorato, sente, si sgancia dall’ovvio e guadagna l’impossibile.

L’agnostico si ferma presto, si fida di “se stesso” e del suo irriducibile io. Ma c’è una differenza ancor più sottile: l’agnostico non può amare sul serio il secondo pronome. Non può amare l’altro di un amore inedito e ricco di gratuità. Al massimo lo può tollerare, come insegna la scuola del riformismo laico e illuminista, oppure lo può rispettare. Non va oltre!

Se si opta per l’incertezza negativa (agnosticismo), si accorcia il nostro essere “esigenti” e si è troppo disorientati per costruire ponti fra uomini e donne, anche perché alla prima tempesta esistenziale si cade giù. Il cristiano moderato, cioè chi ha Cristo fuori, è complice di questa linea agnostica che finisce per arrendersi al vocabolario del mondo. Naturalmente, chi gode di una “certezza di Dio” – tipico approccio fondamentalista – vive uno stato di perfetta tranquillità, calma e lungo riposo; di conseguenza, si abbassa il brivido e, al nuovo disturbo, i ponti si traducono in muri col filo spinato.

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Scienza

L’amore cristiano, l’agape, il trascendente che si fa carne può essere scoperto e vivificato solo da chi entra, con i segni dello stupore e di una positiva incertezza, nelle dinamiche del Cristo dentro-in uscita. Se io ti rispetto o ti tollero, non morirò mai per te, perché non ho Lui in me.

Certo, nei labirinti del bellum omnium contra omnes è già qualcosa avviare le pratiche della tolleranza o del rispetto; ma oggi devo scendere nelle vie paradossali e dipingere con il “pennellino” il Cristo fa, situando in mezzo fra due sfumature una croce che unisce nel grido.

Secondo Russell la religione era nata a causa della paura dell’ignoto e dell’occulto; ma questa paura per lui poteva essere rimossa soltanto dalla libertà della ricerca scientifica. Io faccio fatica a credere che la religione nasca dalla paura, né sono convinto che si possa parlare di libertà in relazione alla ricerca scientifica.

Al contrario, la scienza ci costringe, con le sue minuziose analisi, a restare entro gli orizzonti dell’esperienza arrestando così il pensiero. Non permette di pensare una realtà ulteriore rispetto a quella fisica, e ci imprigiona nella gabbia del misurabile. La religione, al contrario, allarga il pensiero e lo apre all’universale. «Le favole del mondo – scriveva Michelangelo – m’ànno tolto il tempo dato a contemplare Iddio» (Lasala).

  • Che importanza può avere oggi la religione, considerando che queste “favole” sono diventate la nostra dimora?

La tecnica imperialistica risponde, in verità, al paradigma religioso. La religione, infatti, è un dogma che ci allontana dall’imprevedibile e dallo stupore di una relazione.

I fanatici della scienza, della tradizione, gli atei del super-materialismo sono religiosi esattamente come quel “cristiano cerimoniale” che abbiamo visto prima: il cristiano senza Cristo ma con un Dio/imprenditore che deve esaudire i miei desideri qui e ora. La religione, in breve, non è la fede. La prima rifiuta l’amore; la seconda si nutre di un incontro ambientato nell’eterno, di uno scambio di verità e di respiri.

  • Come rispondere alle pretese della scienza e della tecnica?

Si risponde alle pretese della scienza non con l’ira del fondamentalismo, cioè con una diversa religione; bensì con gli occhi della fede, gli occhi di Giobbe, occhi umani, semplici e in tensione che, nonostante il male inspiegabile nel qui e le oneste arrabbiature verso Dio durante la notte esistenzialistica, continuano a fidarsi. L’alternativa è una falsa partita a scacchi contro le “serene” manovre del nichilismo.

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